«Basta minacce e stress lascio il pronto soccorso»

L'infermiere 36enne lavorava al Pellegrini

«Basta minacce e stress lascio il pronto soccorso»
di Ettore Mautone
Martedì 24 Gennaio 2023, 08:33 - Ultimo agg. 11:45
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Marco Capone ha 36 anni e fa l'infermiere da 13. Dopo le prime esperienze di lavoro in Emilia nel 2017 si candida per tornare a Napoli, nella sua città, con un bando di mobilità interregionale. Chiede di andare in un pronto soccorso e viene assorbito dalla Asl Napoli 1 che lo dirotta al Pellegrini. Qui viene coinvolto in varie aggressioni, minacce quotidiane. Resiste fino al 2022 poi molla la presa: «Mi sono dimesso perché il pronto soccorso è un luogo di violenza - avverte - sarei rimasto volentieri all'Asl Napoli 1, avevo chiesto il trasferimento altrove ma l'unica via d'uscita per sfuggire a quella quotidiana prepotenza e ferocia è stato andare via».

Una resa la sua?
«No, mi sono guardato intorno e sono riuscito a vincere un concorso alla Vanvitelli, non c'è il pronto soccorso e si lavora con modalità e ritmi consoni alla professionalità mia e di tanti colleghi. Ho solo difeso la mia integrità professionale e anche personale.

Sono tanti i colleghi completamente scoppiati, in burnout, arrivati oltre i limiti della sopportazione e della resistenza. Dopo alcuni anni ci si ammala, si diventa ipertesi, arriva la fibrillazione atriale. Il mio è un lavoro usurante, si vive sotto la minaccia continua di chi pensa che una corsia sia casa propria».

Tornerebbe in un pronto soccorso?
«In condizioni di sicurezza sì. Mi manca molto l'emergenza urgenza, è la mia passione. Ma a Napoli è difficile a causa della violenza sottile, strisciante, continua. C'è gente che quando viene in ospedale già sa che non vuole aspettare, che violerà ogni regola civile. Mancano percorsi sicuri, non ci sono prassi di salvaguardia, una miopia delle aziende e delle istituzioni».

Cosa pensa del Piano del ministro Matteo Piantedosi che intende ripristinare i drappelli di polizia in prima linea: a Napoli al Pellegrini, Cardarelli e Ospedale del mare?
«Penso che utile ma è un segnale ancora timido. Il fenomeno non è conosciuto, approfondito, studiato, misurato. Nessuno conosce i veri numeri. Io ogni giorno al Pellegrini venivo avvicinato e anche quando ero al computer c'era qualcuno che mi minacciava».

Le guardie giurate?
«Hanno armi spuntate e sono essi stessi vittime talvolta anche del furto della pistola. Cercano un dialogo, un compromesso. La sera devono tornare a casa dalle famiglie e non vogliono incontrare per strada i lupi. Ma così non può funzionare. Noi non siamo educatori ma professionisti che devono solo pensare a curare bene i malati».

Ha sentito del suicidio del suo collega e della lettera appello alla Regione del presidente del suo Ordine professionale?
«È sempre difficile decifrare cosa abbia condotto il collega a un comportamento autolesionistico così estremo. Certamente subire continue umiliazioni, mortificazioni, soprusi e violenze può acuire il senso di frustrazione quando non si hanno alternative lavorative. Decine di colleghi sotto stress esprimono disagio per una sindrome post traumatica da stress».

Cosa andrebbe fatto?
«Un piano serio che parta dal monitoraggio per poi garantire sicurezza e sanzioni dando attuazione a tutte le misure rimaste a metà».

Quali?
«Le telecamere, non solo quelle fisse e sui mezzi di soccorso ma su ciascun operatore, per decifrare le fasi di passaggio quando basta una frase, una minaccia, una promessa di violenza a turbare un'intera giornata».

La qualifica di pubblico ufficiale?
«Può servire ma l'ordine pubblico lo deve garantire lo Stato. La Aziende devono poi tutelare i propri dipendenti in tutti i modi e invece spesso ci sentiamo soli. In Emilia, alla Asl di Piacenza e al policlinico di Bologna, non ero in pronto soccorso. Lì quei ruoli sono ancora ambìti perché ci sono percorsi di carriera, rotazioni, tutele, modelli organizzativi condivisi. Gli eventi violenti non sono la regola».

Al Pellegrini invece?
«Tra gli utenti dell'ospedale era diffusa una cultura camorristica, criminale. Anche le persone per bene se scavalcate capiscono che funziona la legge del più forte».

Un caso particolare che ricorda?
«La sparatoria del 2019 nel pronto soccorso ma ero a casa. Nel 2020 la morte di Ugo Russo: ero di turno quando decine e decine di familiari assaltarono l'ospedale distruggendo tutto, ferendoci e ferendosi. Il ragazzo, sparato da un agente fuori servizio a cui il giovanissimo tentò di rapinare un orologio. arrivò in codice rosso il 1 marzo con un'ambulanza del 118. Poi morì e fu un black out. Violenza allo stato puro. Un delirio inenarrabile. Eravamo assediati. Ciascuno di noi ebbe oltre 10 giorni di prognosi per infortuno. Adesso se ne parla un po' di più ma è da anni che i Pronto soccorso napoletani sono preda di atti gravi. Bisogna fare di più».

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