Napoli, l’inferno dei sanitari: «Io infermiera in trincea ho visto la gente morire atrocemente»

Napoli, l’inferno dei sanitari: «Io infermiera in trincea ho visto la gente morire atrocemente»
di Alessandra Martino
Martedì 22 Febbraio 2022, 15:37 - Ultimo agg. 23:58
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Almeno una volta, tutte le persone, napoletani e non, a torto o ragione, si sono posti una domanda: «Ma sei io avessi al mio fianco una persona, o io stesso, che è in uno stato vegetativo o comunque irreversibile, non vorrei essere io ad aiutarlo in questo passaggio qualora questa fosse la sua volontà?».

La Corte Costituzionale ha recentemente dichiarato inammissibile il quesito proposto dall’Associazione Luca Coscioni e appoggiato da una serie di associazioni che chiede di depenalizzare l’omicidio del consenziente. 
In attesa del deposito della sentenza sull’eutanasia, l’Ufficio comunicazione ha fatto sapere che la Consulta ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, «a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».

In primavera non si voterà dunque sul referendum sull’eutanasia. La questione oramai da anni raccoglie i pareri di molti. Diventa particolare quando ad esprimersi non solo solamente gli scienziati oppure gli addetti al settore dell’etica e della bioetica, ma quando parla chi è in trincea a contatto con la sofferenza, nelle corsie degli ospedali napoletani presi d’assalto. 

Oggi a parlarne è Arianna Caputo, un’infermiera di 28 anni, dell’Ospedale del Mare di Napoli, che spiega i motivi per i quali è meglio non soffrire e di conseguenza quanto sarebbe necessaria l’approvazione dell’eutanasia. «Sono pro-eutanasia, per tanti motivi: non soltanto perché sono un professionista sanitario e di conseguenza mi rendo conto della sofferenza fisica ma anche perché umanamente è veramente uno strazio vedere delle persone spegnersi giorno dopo giorno», ha raccontato Arianna.

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L’infermiera napoletana ha raccontato di quanti pazienti, spesso, sono al culmine della loro sofferenza e qualsiasi tipo di approccio è vano. Arianna sull’eutanasia ha scritto una lunga nota, dove racconta e spiega i principi per cui l’approvazione sarebbe un passo importante da fare

“Sentiamo parlare continuamente di “eutanasia”, ma a nessuno importa davvero l’argomento fintantoché la fortuna continua a baciarci e la disgrazia a non essere nostra. Così ci sentiamo in diritto di astenerci, di non pensare alle cose brutte, di delegare al tempo o agli altri le decisioni. 
Ma noi possiamo scegliere, siamo liberi di scegliere.

Di definire, all’interno del verbo “vivere”, cosa per noi non sia vita. Cosa non abbracci la nostra idea di esistenza.  Talvolta ci si trova ad esprimere pareri a riguardo pur non conoscendo l’argomento, soffermandosi su quelle che sono “credenze” e dogmi. 

Prima di parlare di eutanasia, è doveroso fare una distinzione tra ciò che è considerato “stato vegetativo” (e, più nello specifico, “stato vegetativo permanente”) e ciò che è la “morte cerebrale”.
Ecco: lo stato vegetativo, per quanto affermato, non è morte. Ma ritengo non sia nemmeno vita. Non per me che vedo la sofferenza ogni giorno, e alla quale mai mi abituerò. Non per me che vedo in quel tipo di speranza una mancanza di accettazione del fatto che il miglioramento tanto sognato sia solo un inutile accanimento. Non per me che reputo “miracolo” la vita stessa, e non una minima ripresa neurologica che mi costringerebbe comunque a “lasciarmi vivere” piuttosto che a “vivere”. 

In nome di quell’amore che la religione ci inculca e ci spiega; in nome di quell’amore che a volte guida la nostra morale; in nome di quell’amore che ci tiene letteralmente in vita, tracciando in modo inconfondibile la linea che separa il vivere dal sentirsi vivi; in nome di quell’amore che proviamo per i nostri cari, ai quali mai sottoporremmo lo scempio di una morte a piccole dosi; in nome di quell’amore che ci fa svegliare al mattino con la voglia di ricordare alle persone che amiamo che le amiamo, di correre da loro, di abbracciarle, di tenerle sul cuore; in nome di quell’amore che non ha nulla a che fare con la scienza ma che si trova a subire le sue scoperte, le sue definizioni, i suoi standard: in nome di quell’amore, dico sì ad esso. Dico di sì all’amore. Anche nella morte. 
E questo è l’unico concetto di immortalità che vedo, l’unica salvezza, l’unica grandezza”, conclude Arianna nella nota. 


Arianna, dallo scoppio del covid-19 è in trincea a salvare vite e in questi due anni ne ha salvati tanti ma ne ha visti morire altrettanto.  L'emergenza Coronavirus è stata per lei un'occasione di crescita e la sua paura iniziale si è trasformata in consapevolezza e coraggio di cambiare.  «Ore e ore interminabili di lavoro. Ricordo momenti di paura intensa». 

«Il nostro è un lavoro molto complicato, spesso, basato su un rapporto di fiducia tra paziente e professionista sanitario. -ha spiegato Arianna-. Con il Covid tutto questo è venuto a mancare. Ci siamo trovati di fronte ad un’emergenza, dove anche noi operatori eravamo labili, perché, non eravamo preparati. Tutto quello che vedevi era gente soffrire e dovevi sperare di tornare a casa, di essere negativo e non contagiare anche la tua famiglia, perché altrimenti, ti saresti sentito in colpa anche per quello». 

Arianna Caputo, ha raccontato che tra marzo e aprile 2020, -quando è scoppiata la pandemia-, il personale sanitario, per sicurezza portava un cambio in più in ospedale, per paura del contagio e di conseguenza rimaneva in ospedale per la quarantena e non tornava a casa per paura. «Quando iniziavamo il turno, ci chiedevamo se saremmo tornati a casa a fine turno», ha ricordato Arianna. 

Anche in piena pandemia, Arianna e tutta l’equipe dell’Ospedale del Mare, con i pazienti hanno attuato un approccio diverso con i pazienti, dopo uno studio condotto dalla stessa Arianna, in Spagna e a Napoli, hanno sperimento la Medicina Narrativa

La medicina narrativa è un tipo di tecnica, dove il paziente non si sente un numero o di secondaria importanza, ma viene ascoltato ogni giorno, racconta la sua storia e su una scala da 1 a 10, ogni giorno deve spiegare il suo dolore. «Con questo nuovo approccio, -ha sottolineato Arianna-, i pazienti hanno richiesto di giorno in giorno sempre meno analgesici. Perché si sentivano ascoltati e capiti. Spesso i pazienti, chiedono delle medicine per attirare l’attenzione e per far percepire il loro dolore. In questo modo tutto è cambiato». Inoltre su questa scuola di pensiero Arianna Caputo, ha scritto un libro, “Diario di un pensiero”, dove racconta di quanto sia terapeutica la scrittura per assimilare e rendere sempre più chiari, i momenti tristi, ma anche quelli belli della vita. 

Arianna, si è raccontata in video call, perché solo da pochi giorni è risultata negativa al covid. Dopo 15 giorni di quarantena a causa della positività al Covid. «Sono stata molto male. Credo che la terza dose mi abbia salvata dalla terapia intensiva. -ha precisato Arianna-. Colgo l’occasione per invitare tutti a vaccinarsi perché la libertà di una persona, non deve andare a ledere la libertà di altri». 
«La medicina ha fatto tanti passi in avanti, io ci credo tanto. Ma anche gli altri dovrebbero farlo perché i risultati sono evidenti», ha concluso.

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