Omicidio a Mergellina, gli educatori dell'assassino: ​«In comunità era cambiato»

Arrestato per droga, Francesco Pio Valda era stato riabilitato dopo la messa in prova

Francesco Pio Valda davanti a un poster di Scarface
Francesco Pio Valda davanti a un poster di Scarface
di Giuliana Covella
Giovedì 23 Marzo 2023, 00:04 - Ultimo agg. 24 Marzo, 07:21
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Aveva lavorato a lungo per riabilitarsi, prima accolto dall’associazione onlus Jonathan, poi impegnato - dopo aver ottenuto la messa alla prova - all’interno di una comunità nel Casertano, La Mongolfiera, che l’aveva seguito passo dopo passo. Un percorso di rieducazione e recupero che sembrava essere stato risolutivo per Francesco Pio Valda, il 20enne sottoposto a fermo per l’omicidio del 18enne Francesco Pio Maimone. Due nomi uguali e uniti da un tragico destino. Due vittime di un sistema che non è evidentemente efficace, se nonostante i tentativi di inclusione e reinserimento nella società uno dei due, quello che aveva scelto una strada sbagliata, su quella strada ci è finito di nuovo togliendo la vita a un altro ragazzo. Giovani che, come Valda, hanno spezzato i sogni di un innocente.

Eppure nessuno nasce criminale e può accadere che, di fronte a un errore, ci si possa riscattare e tornare sulla retta via. Quella che sembrava ormai avere imboccato Francesco Pio, rampollo di una famiglia di Barra legata al clan Cuccaro. Secondo quanto riferisce il suo legale Antonio Iavarone, infatti, il giovane era stato arrestato, ancora minorenne, insieme al fratello Luigi oggi in carcere, per spaccio di sostanze stupefacenti, ma la sua storia pareva avere un lieto fine.

Come positiva era stata giudicata la sua messa alla prova che era riuscito a superare con successo, tanto che il Tribunale aveva stabilito di estinguere il reato che gli era stato contestato. 

Si dicono sconcertati gli operatori che da anni lavorano con i minori come Valda, giovanissimi che crescono in zone “calde” della città e che hanno alle spalle famiglie spesso con seri problemi giudiziari. Un gap difficile da colmare, ma in questo caso le istituzioni hanno provato a tracciare per lui una seconda chance, a costruire un futuro diverso che si è infranto spezzando la vita di un altro ragazzo, incensurato e soprattutto lontano da quei contesti malavitosi. Ma il lavoro in comunità e la presenza costante degli educatori, per allontanare Francesco Pio da quel contesto criminale in cui era cresciuto non sono bastati. O meglio non sono bastati ad evitare che il ragazzo ricadesse nuovamente in quel vortice di violenza dal quale sembrava essersi salvato. 

Come spiega chi lo ha seguito, a partire dai volontari dell’associazione Jonathan dove era rimasto per un mese: «Come si può immaginare ho difficoltà a parlare dei ragazzi che sono stati da noi e nel caso specifico serve una particolare cautela che dobbiamo adottare - dice Silvia Ricciardi - Posso solo dire che Francesco Pio all’epoca del collocamento da noi non si discostava tanto dai ragazzi che entrano nel circuito penale. Contesto familiare precario e marginale, quartiere difficile, problemi giudiziari familiari gravi. Cambiano i nomi ma le storie sono simili, soprattutto quando i ragazzi rientrano nel loro contesto. L’epilogo della sua storia di vita ci ha amareggiato, ma purtroppo dopo 30 anni di lavoro con questi ragazzi e con il “vuoto” istituzionale e di valori che contraddistingue il nostro territorio nulla ci sorprende più». 

 

Un lavoro fatto di impegno, costanza e sacrificio quotidiani per gli operatori delle comunità che accolgono e seguono tanti ragazzi “difficili”, ma che necessiterebbe di una rete ben più ampia «prima, durante e dopo», come sottolinea Felice Di Donato, presidente della cooperativa La Mongolfiera di Caserta, che ha accolto il 20enne per oltre un anno. «Delirio di onnipotenza, soldi facili e ostentazione della ricchezza» sono i valori di questi ragazzi, secondo l’educatore. «Se sin dall’inizio alla fine del percorso non esiste una rete territoriale che funzioni, questi ragazzi si perderanno sempre, perché non hanno più valori né punti di riferimento che - sia ben chiaro - non è solo la famiglia. Comunque sia quanto accaduto è un fallimento per tutti». 

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Poi il ricordo dell’aggressore che ha ucciso il suo omonimo e che mai si sarebbe pensato arrivasse ad armare la propria mano: «Ha terminato il percorso di riabilitazione a fine 2022, dopo più di un anno. Arrivato in comunità e avviato alla messa alla prova (andava in un centro diurno a Santa Maria Capua Vetere) ha seguito due corsi di formazione professionale, uno in meccanica, l’altro in edilizia. Inoltre c’era l’idea di andare a lavorare fuori da certi parenti, poi non se n’è fatto nulla». Ma soprattutto il profilo del 20enne non faceva presagire niente di quanto avvenuto lunedì scorso: «Aveva buone capacità relazionali - ricorda Di Donato - era rispettoso dei ruoli in comunità, non ha mai dato problemi né è rimasto coinvolto in risse o altro. Inoltre quando è arrivato era scolarizzato, ma come tanti suoi coetanei aveva le stesse problematiche di un ragazzo che proviene da un contesto difficile». 

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