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Napoli, l'omicidio del tatuatore di Lavezzi: «Gianluca ucciso dal clan, dallo Stato nessun aiuto»

Appello della sorella: a mia madre hanno negato lo status di vittima

Cimminiello con Lavezzi
Cimminiello con Lavezzi
di Giuliana Covella
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 3 Febbraio 2023, 07:10 - Ultimo agg. : 4 Febbraio, 09:00
5 Minuti di Lettura

«Mi rivolgo alla nostra premier Giorgia Meloni, che spero vorrà incontrarmi, così che - carte alla mano - le possa spiegare la situazione paradossale che io e la mia famiglia stiamo vivendo, a causa di uno Stato che uccide mio fratello per la seconda volta». Susy Cimminiello ha 40 anni, è sposata ed è madre di tre figli. Ma è soprattutto la sorella di Gianluca Cimminiello, il tatuatore di 32 anni ucciso il 2 febbraio 2010 nel suo negozio a Casavatore da esponenti del clan Amato-Pagano. Ora il ministero dell’Interno ha negato a sua madre il riconoscimento dello status di vittima innocente (previsto dalla legge del 1990 per i parenti di persone uccise senza colpa dalle mafie) per una vicenda che è tanto assurda quanto paradigmatica: poiché la donna nel 1985 denunciò il marito per violenze e abusi in famiglia e si costituì parte civile nel processo, oggi il Viminale le attribuisce ancora il legame di parentela, nonostante l’uomo - deceduto da alcuni anni - fu condannato. Come se non bastasse tra i parenti del marito c’è qualcuno con precedenti penali, un ulteriore ostacolo che ha bloccato la pratica ministeriale. A spiegare nei dettagli la situazione in cui si trovano lei e la sua famiglia è la stessa Susy, che continua a lottare per mantenere viva la memoria del fratello nelle scuole e nelle carceri.

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Dopo tredici anni dalla morte di Gianluca, come si è conclusa la vicenda giudiziaria?
«Dopo il processo penale il mandante e i due esecutori materiali sono stati condannati all’ergastolo, grazie soprattutto ad una testimone di giustizia, che era la fidanzata di mio fratello. Fu lei a riconoscere i soggetti entrati nel negozio sia prima per le minacce che lui subì, sia il giorno dell’omicidio».

Vuole ricordare cosa accadde prima di quella tragica sera?
«Gianluca aveva pubblicato sui social una foto che lo ritraeva insieme al calciatore argentino Lavezzi, che all’epoca giocava nel Napoli e con cui era riuscito a farsi fotografare andando allo stadio. In realtà si trattava di un fotomontaggio, che purtroppo fece scattare l’invidia di un collega che si rivolse agli Amato-Pagano per vendicarsi di mio fratello. Il 30 gennaio tre uomini del clan si presentarono al negozio per intimidirlo e ne nacque una colluttazione. Gianluca era allenatore di kickboxing e riuscì a difendersi e a metterli in fuga. Ma pochi giorni dopo, verso l’ora di chiusura, il 2 febbraio il commando tornò e lo uccise con tre colpi di pistola sotto gli occhi della fidanzata».

Ora che avete avuto giustizia dalla magistratura, è lo Stato che vi crea problemi?
«Sì, quello stesso Stato che dovrebbe difenderci adesso è contro di noi».

Cosa è accaduto?
«Circa quarant’anni fa mia madre denunciò nostro padre per violenza in famiglia e si costituì parte civile nel processo. Lui venne processato mentre era in custodia cautelare, poi condannato. Gli fu tolta la patria potestà e quando lo scarcerarono gli diedero la pena sospesa. Da allora si rese irreperibile, né mia madre aveva alcun interesse a rivederlo. Era naturale che volesse chiudere ogni rapporto con lui e con i suoi parenti per il nostro bene, per tutelare i suoi figli tre (io, mia sorella Palma e mio fratello Gianluca)».

Dove nasce il problema per lo Stato?
«Nel momento in cui mia madre ha chiesto il riconoscimento dello status di familiare di vittima innocente, il ministero dell’Interno ha risposto che manca il requisito soggettivo per ottenere i benefici, perché esiste tuttora il vincolo di parentela con il marito (seppure lui sia deceduto). In poche parole per lo Stato italiano mia madre è ancora legata da vincoli di parentela con l’uomo che fece condannare per violenze e abusi. Ma c’è di più».

Cos’altro?
«A spingere il ministero a rigettare l’istanza è stato anche il fatto che “tra gli affini entro il quarto grado di parentela” ci sono quattro componenti della famiglia di mio padre che risultano avere precedenti penali, ma che mia madre non ha mai conosciuto. Tanto che alcuni sono nati dopo la separazione dei miei genitori. Così sarebbero venuti meno i requisiti per beneficiare della normativa vigente».

Sta dicendo che un papà orco con tanto di condanna, oggi defunto, impedisce alla sua famiglia di ottenere un diritto?
«Purtroppo sì, è paradossale e fa tanta rabbia ma è così. Abbiamo concluso e vinto la causa contro la camorra e ora dobbiamo affrontare quella contro lo Stato». 

Come vi difenderete?
«Mia madre ha citato in giudizio il Viminale e lo scorso dicembre è stata celebrata la prima udienza. La prossima si terrà a giugno. Ma farò di più, perché voglio giustizia».

Cosa farà?
«Premesso che pochi giorni fa in Consiglio comunale il consigliere Luigi Carbone ha sollevato il caso ora chiedo al presidente della Regione Vincenzo De Luca di fare una ricognizione di tutte le istanze presentate in Campania dai familiari delle vittime innocenti e verificare quante siano state accolte e quante respinte. Ma soprattutto mi rivolgerò al presidente del Consiglio Giorgia Meloni: ha dimostrato di avere grande forza d’animo crescendo senza un papà. Chi più di lei potrebbe intervenire per vederci chiaro? Devo impedire che mio fratello venga ucciso anche nell’anima».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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