Napoli, le parole di verità che non piacciono al sindaco de Magistris

di Vittorio Del Tufo
Giovedì 18 Gennaio 2018, 09:38
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Il sindaco De Magistris ha fatto sapere ieri alla stampa che le parole del ministro Minniti sulle baby gang non gli sono piaciute. Cosa aveva detto il capo del Viminale nel giorno del vertice in prefettura sulla nuova escalation di violenza criminale in città? Nulla di clamoroso, più o meno quello che pensano tutti. Ovvero che le baby gang, pur non essendo organizzazioni terroristiche, usano metodi da terroristi, perché colpiscono a caso. Difficile sostenere il contrario, visto che il modus operandi delle bande di criminali che infestano la città è sotto gli occhi di tutti. Più interessante è cercare di capire perché a De Magistris le considerazioni di Minniti sono apparse indigeste. Per il sindaco quelle parole non andavano utilizzate perché «rischiano di esaltare» persone che potrebbero sentirsi legittimate a considerarsi «leader criminali e padroni di un territorio». Sinceramente facciamo fatica a immaginare che le piccole belve che seminano il terrore in città, colpendo nel mucchio coetanei inermi e spappolando loro la milza, possano esaltarsi o non esaltarsi per le parole pronunciate dal ministro dell'interno. In realtà dubitiamo persino che qualcuno gliele abbia riferite. 

Ma il punto è un altro. Il sindaco ha affermato ieri anche che «non c'è un caso Napoli» e che «purtroppo simili fatti accadono in tutto il Paese e anche fuori dall'Italia». Immaginiamo che De Magistris sia preoccupato per il rischio che l'immagine della città possa essere macchiata da questa nuova ondata di violenza giovanile. Lo siamo anche noi. Chiunque abbia a cuore il buon nome della città non può che dolersi per il riverbero negativo dei terribili episodi di cronaca degli ultimi giorni. Ma il sindaco dovrebbe farsene una ragione: quella delle baby gang non è solo un'espressione di terrorismo urbano pulviscolare e diffuso (le bande colpiscono nel mucchio individuando a caso le loro vittime) ma anche, oggettivamente, una macchia che rischia di diventare uno stigma. E i fotogrammi dei militari circondati da un branco di minacciosi teppisti sul lungomare, o del clochard sprangato da un gruppo di bulli in Galleria, non aiutano certo a rilanciare l'immagine della città.

Insomma, il «caso Napoli» esiste eccome, così come esiste un'altra Napoli che ieri ha dato prova di una straordinaria tensione civile scendendo in piazza contro la violenza delle bande giovanili. Ora, per difendere l'immagine della città dobbiamo smettere di chiamare le cose con il loro nome? O dobbiamo far finta che questo esercito di «ragazzi contro», che non arretrano di un passo di fronte al dolore delle proprie vittime, siano un problema solo di ordine pubblico, un affare esclusivo di polizia e carabinieri? Dobbiamo far finta che non siano una grande emergenza che chiama in causa le responsabilità (e dunque il contributo) di tutti? 

Abbiamo manifestato, ieri, un (moderato) ottimismo dopo il vertice con Minniti perché ci è sembrato che avesse introdotto un metodo nuovo: accordo tra le istituzioni, visione interdisciplinare, sinergia tra le agenzie educative, rafforzamento della rete dei maestri di strada, controlli più severi e stringenti, a cominciare dai motorini. Vedremo se alle buone intenzioni seguiranno progetti concreti, vigileremo sui risultati. Ma per adesso la parola d'ordine dev'essere: collaboriamo tutti. De Magistris ha dato prova in quest'ultima fase di voler lavorare d'intesa con le altre istituzioni, anziché muoversi in direzione ostinata e contraria. Speriamo che continui su questa strada, possibilmente mostrando efficienza negli interventi nei quali è chiamato direttamente in causa il Comune.
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