Si aggira tra le aule del terzo piano del Palazzo di giustizia di Napoli, ha un foglio di carta tra le mani, quello della sua convocazione. C’è la data, la sezione del collegio di Corte di appello, l’orario di convocazione dell’udienza. Giovedì mattina, il signor Rosario (che chiede di non mettere il cognome), attende all’esterno dell’aula 315, aspetta il suo avvocato, nella speranza che questa volta il processo che ha a cuore possa prendere realmente quota. E al cronista del Mattino dice: «Sono parte offesa, mi sono costituito parte civile nel processo a carico degli imputati per la morte di mia moglie. Sono quelli dello staff medico che l’ha operata purtroppo con conseguenze drammatiche. Guardi, mia moglie non c’è più. Morì in sala operatoria, era il 2012, da allora aspetto un verdetto definitivo, dopo la condanna in primo grado».
Storie drammaticamente simili, qui ai piani alti della cittadella giudiziaria di Napoli. Al lavoro di pm e avvocati, consulenti e giudici, processi che si aggiornano e si rinnovano, fino a quando non entrano nell’imbuto partenopeo: la Corte di Appello di Napoli, dove - secondo l’allarme lanciato dai vertici lo scorso gennaio -, il 39.6 per cento dei processi si concludono con la prescrizione (anche se, secondo stime degli ultimi giorni, il dato è stato aggiornato al 32 per cento).
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Un dato allarmante, che si staglia su un trend nazionale che non è comunque incoraggiante. Restiamo a Napoli, al ritmo di un dibattimento medio che viene istruito e condotto all’ombra delle torri del Centro direzionale: ci vogliono 2032 giorni di dibattimento per arrivare al colpo di spugna della prescrizione (che, il più delle volte, si abbatte nel corso del secondo grado di giudizio). Cartoline dal Palazzo di giustizia, dove - giudici, avvocati e addetti ai lavori - parlano esplicitamente di amnistia: si scrive prescrizione, ma si legge amnistia - è stato ripetuto di recente nel corso di un convegno nella camera penale da parte di un presidente di sezione -, se è ormai chiaro che più di un fascicolo su tre si conclude con un nulla di fatto.
Ma torniamo alla giustizia italiana e all’allarme lanciato dai vertici europei: il rapporto annuale della Commissione Ue sulla giustizia ha confermato la lentezza del sistema italiano. Si legge in una nota diffusa ieri alle agenzie: i dati (in questo caso riferiti al 2019), evidenziano scarsi progressi rispetto al passato, con tempi di attesa che restano tra i più lunghi d’Europa. Secondo le tabelle, dove l’Italia figura tra i fanalini di coda, si stima siano necessari 400 giorni per la soluzione di cause civili, commerciali, amministrative e di altro tipo, in primo grado. Ma il dato puro sulle controversie civili e commerciali in primo grado ci vede penultimi con oltre 500 giorni per la prima sentenza, e ultimi in Ue per le decisioni di terzo grado, con oltre 1300 giorni (media nazionale nel settore civile). Commenta il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders: «La riduzione degli arretrati nei casi civili e commerciali è un segnale positivo importante. Tuttavia i tempi stimati per i procedimenti civili e giudiziari restano molto lunghi. C’è un miglioramento ma sono ancora molto lunghi rispetto alla media Ue». Numeri, stime e statistiche, che raccontano poco rispetto a chi, da anni, aspetta di capire cosa è accaduto in una sala operatoria alla moglie; per quale motivo un figlio è stato travolto all’angolo della strada da un autista ubriaco; o perché un genitore è stato truffato da una banda di finti operatori dell’elettricità.