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Napoli, coppia via da Scampia: «Il nostro locale distrutto dopo le denunce ai boss»

di Giuliana Covella
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 5 Settembre 2022, 08:38 - Ultimo agg. : 16:35
4 Minuti di Lettura

«Andar via da Napoli? Non servirebbe, anche altrove è così. Abbiamo deciso di restare, ma oltre alla paura hanno preso il sopravvento lo scoramento e i traumi psicologici». Lucia Gaeta, 38 anni, è la moglie di Angelo Aprea, 40 anni, con cui è proprietaria di un panificio a Scampìa, che dal 2015 ha rilevato dai suoceri insieme al marito. Ma da lì poche settimane fa i due coniugi hanno dovuto andarsene in seguito alle denunce contro il racket che hanno portato all'arresto di boss ed emissari dei clan. Premiati dalla Federazione italiana antiracket e dal Comune di Napoli per aver denunciato il fenomeno, oggi che si sono trasferiti in un altro quartiere, per la coppia di imprenditori è tornato però l'incubo intimidazioni: sabato notte nel nuovo negozio all'Arenaccia hanno subito un raid sul quale stanno indagando i carabinieri della stazione Borgoloreto, come spiega al Mattino la stessa Lucia. Da Scampìa al centro.

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Dopo quanti anni vi siete trasferiti?
«La panetteria al Rione Monterosa era dei genitori di Angelo, che nel 2005 furono vittime di una bomba carta lanciata contro la saracinesca. Ad agosto 2015 subentrammo noi. All'inizio sembrava andare tutto bene, poi a dicembre arrivò la prima richiesta di pizzo».

Di che si trattava?


«Ci chiesero soldi per le luminarie natalizie. Furono i miei suoceri a pagare, perché si erano rivolti a loro pensando fossero ancora i titolari. Poi a Pasqua del 2016 le richieste divennero più incalzanti e coinvolsero il nostro fornitore di mozzarella. Lo minacciarono vietandogli di vendere nel quartiere. Gli unici clienti rimasti eravamo noi e un altro. Lui si arrese e il clan si rivolse a noi».

Cosa volevano?
«Si presentarono al locale con il loro fornitore, imponendoci di acquistare la mozzarella da lui a 10 euro al chilo, anziché a 5 come avevamo sempre pagato, ossia il doppio. Noi ci rifiutammo, ma non si fermarono».

Come reagirono?
«Ci minacciarono dicendo che, se non avessimo pagato, sarebbe venuto il capoclan in persona. Poi iniziarono a chiederci il pizzo anche su cartoni per le pizze, imballaggi e shopper con prezzi maggiorati. Per le buste di plastica un cartone che costava di norma 7,50 euro con loro arrivava a 15 euro».

Qual era il clan?
«Abete-Notturno-Abbinante».

Come siete arrivati alla denuncia?
«A ottobre 2016 venne un altro emissario della cosca, oggi arrestato e condannato a 8 anni, che ci chiese di firmare per l'ok all'installazione delle luci di Natale. Al nostro rifiuto si infuriò e io registrai tutto. Ci propose addirittura un rateizzo. Lo cacciai, ma non si arresero. Lì capii che da soli non ce l'avremmo fatta e andai io stessa alla polizia».

Poi?
«Dopo tre mesi di calma apparente tra gennaio e febbraio 2017 ricominciarono minacce e intimidazioni. La mattina dopo l'ennesimo raid gli altri commercianti applaudivano contenti di ciò che avevamo subito, così decisi di denunciare ancora una volta».

A cosa hanno portato le denunce?
«A quattro arresti il 27 gennaio 2018».

Come avete fatto dopo a sopravvivere nel rione?
«Col supporto delle associazioni antiracket e dei carabinieri».

Come vi sentite oggi?
«Abbiamo iniziato un percorso psicologico perché siamo distrutti. Dopo aver denunciato non sapevamo più di chi fidarci. Anche con i clienti eravamo sempre sulla difensiva. Fino a quando è maturata la decisione di trasferirci».

Perché?
«L'omertà del rione è stata devastante. La maggior parte dei residenti si è trasferita. Le vendite al panificio erano calate tantissimo. Soprattutto eravamo costantemente controllati dai parenti del boss».

Ora vi siete spostati all'Arenaccia, ma anche lì avete subito un raid sabato notte. Come ve lo spiegate?
«Ci sembra strano, ma sono in corso le indagini dei carabinieri in cui abbiamo piena fiducia».

Cosa vorreste?
«Una città normale, dove si possa vivere e lavorare onestamente».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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