Napoli, quel silenzio assordante sui carnefici di Arturo

di Vittorio Del Tufo
Sabato 13 Gennaio 2018, 14:16 - Ultimo agg. 20:21
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Chi paga per il massacro di Arturo? È trascorso quasi un mese dal bagno di sangue di via Foria. E nonostante l'ondata di rabbia per quel rito di iniziazione di una babygang, una macabra cerimonia che ha lasciato esanime davanti alla fermata di un bus un diciassettenne uscito di casa per ritirare il certificato medico del fratellino, le indagini sono a un punto morto. Gli adolescenti che in pieno giorno hanno sferrato venti coltellate ad Arturo, davanti a decine di testimoni, continuano a essere liberi e impuniti, protetti da un muro di omertà che finora nessuno è riuscito a scalfire. E proprio ieri un altro ragazzino, di appena 15 anni, è stato pestato a sangue da una babygang davanti all'uscita del metrò di Chiaiano: in ospedale hanno dovuto asportargli la milza. 

È una lunga notte di paura, occhi chiusi e silenzi. Lo scorso 18 dicembre Arturo è stato individuato come bersaglio - tra i tanti, senza alcun motivo - e colpito selvaggiamente al collo, al torace, all’addome, in nome di un’ancestrale e primitiva rivendicazione di forza, di dominio del territorio. Chi ha visto, e sa, continua a tacere.

Questo muro di bocche cucite ha impedito finora alle forze dell’ordine di portare a casa il risultato che è doveroso aspettarsi: che i responsabili del massacro siano messi nelle condizioni di non nuocere più. Ma la storia di Arturo non può finire così. Se il ragazzo dovesse ritrovare sulla sua strada il branco che lo ha pugnalato sarebbe una sconfitta non solo per la polizia, ma per l’intera collettività. Quanti altri tributi di sangue dovremo pagare prima di smarrire del tutto il senso di appartenenza, l’orgoglio di far parte di una comunità, dunque di aderire a un sistema di regole e di valori condivisi?

I carnefici di Arturo continuano a nascondersi nel cuore malato della città, nella sua metà oscura. Protetti da un silenzio che finora nessuno è riuscito a penetrare. Eppure non stiamo parlando di invincibili geni del male, ma di un gruppo di ragazzini, di adolescenti, che vivono a casa dei loro genitori, frequentano le scuole di quel quartiere. Nessuno ha lavato i loro abiti sporchi di sangue? Nessuno ha ascoltato le loro conversazioni? Nessuno ha notato, nei loro comportamenti, qualcosa di strano o di sospetto? 

La questione va oltre Arturo e travalica anche le singole responsabilità dei balordi che lo stavano accoppando, e che pure devono pagare per la loro azione. Questo assordante silenzio, soprattutto delle famiglie, esprime una concezione intollerabile della convivenza civile: quasi una forma di totalitarismo, di fondamentalismo, che di fatto in molte zone della città impedisce alle lancette della storia di camminare nel verso giusto. È una difesa a oltranza del proprio microcosmo, che fa avvertire come ostile e potenzialmente pericoloso - come ha sottolineato nei giorni Isaia Sales sul Mattino - ogni rapporto con tutti coloro che non appartengono al proprio luogo d’origine. E dunque ogni rapporto con lo Stato di diritto, percepito come elemento estraneo e dirompente, come una nota stonata, o un fastidio.

Questa frattura, questo progressivo sfaldamento del sistema di regole su cui si fonda - dovrebbe fondarsi - una cittadinanza, è il cuore del problema, perché rischia di cementare una cultura dell’antistato che alberga e cresce non solo all’interno dei sodalizi criminali, ma delle stesse famiglie. Lo testimonia il comportamento di chi continua a proteggere i carnefici di Arturo. Con ogni probabilità le loro stesse madri. Dalla parte opposta della barricata c’è un’altra mamma, quella del diciassettenne, la quale continua a chiedere che non si allenti la tensione sul caso. Una sovraesposizione, una fermezza e una tenacia che possono apparire quasi irrituali, per quanto sono stridenti con l’ostinato silenzio di altre madri di quello stesso quartiere. 

E invece dobbiamo essere grati alla mamma di Arturo e fare nostro il suo sentimento di sconfitta. E la sua rabbia. Per questo riteniamo che abbia fatto bene, ieri, il Garante per l’Infanzia a richiamare il ruolo delle famiglie invitando i genitori dei ragazzi coinvolti negli ultimi fatti di sangue a denunciare i propri figli: «Mi rivolgo in particolare alle mamme affinché, denunciando, affidino i propri figli al sistema della giustizia». Possono sembrare parole ingenue, di fronte al muro di gomma che impedisce alle forze dell’ordine di assicurare alla giustizia gli accoltellatori del diciassettenne. Ma non lo sono. Come non è un pannicello caldo la richiesta del Garante di un tavolo interistituzionale per individuare gli interventi contro le devianze minorili. Finora, su questo fronte, le battaglie hanno prodotto risultati modesti. E un magrissimo bottino è venuto anche dalle politiche messe in campo per arginare il fenomeno della dispersione scolastica. 

Questi fallimenti ci interrogano e ci impongono di puntare i riflettori, ancora una volta, sull’implosione dei sistemi educativi e sul disfacimento di tante famiglie, un disfacimento diventato ormai - piaccia o non piaccia ammetterlo - fattore eversivo. Ma basta chiacchiere, per carità. Finora gli unici ad aver portato a casa qualche risultato, su questo fronte, sono stati i carabinieri, con le loro denunce nei confronti dei genitori inadempienti. Devianza e dispersione scolastica si combattono con progetti concreti, non con il festival della teoria: a farsene carico devono essere le istituzioni scolastiche (più di quanto non abbiano fatto finora) e gli enti locali, il tribunale dei minorenni e le forze dell’ordine, le famiglie e il mondo delle associazioni. E deve occuparsene la politica, sempre più latitante o piegata sui propri interessi, che ama discutere di questi argomenti solo quando c’è da fare polemica con Saviano - vedi la trita e stanca disputa sugli emuli di Gomorra - magari per finire sui giornali o alimentare polemiche vacue. Vacue come le commissioni per la legalità che hanno prodotto finora solo parole, mentre il brodo di omertà nel quale siamo immersi continua a impedire finanche l’arresto di un gruppo di piccole belve.
 
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