Napoli, quegli abissi di solitudine dietro la violenza del branco

di Aldo Masullo
Venerdì 19 Gennaio 2018, 09:59
4 Minuti di Lettura
Il formarsi di bande di ragazzi violenti è, in tutti i tempi, tipico dei grandi aggregati urbani. In particolare il fenomeno si presenta drammaticamente nelle metropoli moderne. Ma il progressivo sviluppo delle istituzioni liberali prima e liberal-democratiche poi ha sempre più ridotto questa gravissima patologia sociale.

A Napoli nelle ultime settimane si sono verificati l'un dopo l'altro episodi molto gravi, che sembrano per la loro frequenza denunciare la comparsa del fenomeno nella sua pienezza. A questo, fino a qualche giorno fa, non si era dato gran peso né dai cittadini, infastiditi piuttosto dalle movide notturne, né dalle pubbliche istituzioni. I cittadini erano finora apparsi indifferenti e le istituzioni disorientate. A un certo punto è scattato l'allarme. Qualche illustre magistrato ha invocato: «Salvate Napoli». Qualche autorevole esponente della società civile a sua volta ha diffidato: «Il tema della sicurezza urbana non è secondario; magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine ci devono dire come intendono affrontare questa emergenza». 

Finalmente il Ministro dell'Interno, accorso a Napoli, ha qualificato il fenomeno come «violenza nichilistica, caratterizzata da modalità terroristiche, in quanto colpisce in modo casuale», e ha annunciato alcune misure urgenti di polizia.

Gli interventi giornalistici hanno oscillato tra le consuete spiegazioni sociologiche, ovviamente centrate su camorra, mancanza di lavoro, diserzione scolastica, e i banali richiami alla forza repressiva. 

Nel giro di pochi giorni, questa scenografia di maniera ha iniziato a frantumarsi. Sono cominciati ad emergere segnali interessanti. La madre, professoressa universitaria, di un tranquillo ragazzo aggredito in pieno centro da una banda di ragazzini, ha sottolineato la responsabilità dei genitori, perché «non capiscono la gravità di certe azioni», e si è impegnata per un movimento civico di mamme: «Ci salveranno le mamme, quelle buone e pure quelle cattive».

Assieme alle numerose testimonianze apparse sul «Mattino», anche «Repubblica» è tornata ieri sull'argomento intervistando un «giovane boss». Qui si tratta non di rimettere in campo generiche conoscenze sociologiche o psicologiche, ma di ascoltare e cercar di capire questi adolescenti che non in genere ma oggi qui, a Napoli, fanno qual che fanno. Mai come in questo caso cade a proposito il celebre ammonimento, caro a Marco Pannella: «conoscere per deliberare»! 

L'intervista è rivolta non ad un ragazzino, ma ad uno, che solo qualche anno fa lo è stato, ed è ben presto finito rapinatore, condannato e ancora sotto vari processi. Da ciò che, con la calma della nuova consapevolezza, egli risponde emergono con limpidezza alcuni elementi assai istruttivi.

Primo. Lino, come è chiamato il diciannovenne, non è figlio di boss camorrista, ma di modesti e onesti commercianti. Il che contraddice la banalità socio-deterministica dell'ambiente familiare. A quanto si è appurato, molti di questi ragazzini terribili sono figli di famiglie borghesi. Certo ognuna di queste famiglie avrà una sua storia, in cui magari potrebbe ritrovarsi qualche situazione che ha favorito lo sbandamento. Ma resta in ogni modo esclusa la facile spiegazione dell'ambiente socio-familiare criminale o miserabile.

Secondo. S'impone la noia del non far nulla, dopo non aver combinato nulla a scuola. Sul piano soggettivo, l'invenzione della violenza senza alcun fine predatorio è la risposta al vuoto. In gruppo, tutti di 14 o 15 anni, ci si diverte a dare fastidio, sicuri dell'impunità, perché si tratta solo di bravate. Sul piano oggettivo, è evidente l'inadeguatezza della scuola, incapace a coinvolgere i ragazzi in avvincenti percorsi di apprendimento e di responsabilizzazione innanzitutto verso se stessi. Sicché i giovanissimi finiscono per né imparare né lavorare, ma stare tutto il giorno «in mezzo alla strada». E se «si sta in mezzo alla strada», dice Lino, non si capisce più quando si è varcato il limite tra la bravata e l'azione criminale. Si fuma, ci si droga, si è tentati dal denaro, si diventa rapaci.

Terzo. Alla domanda finale sul perché facesse quel che faceva, la risposta di Lino è impressionante: «Ero il più piccolo di tre fratelli e i miei genitori già facevano sacrifici per tutti». Cioè non si curavano particolarmente di lui. «Mi sentivo poco considerato, un dimenticato». Qui irrompe un segnale fortissimo: la solitudine. Questo è il peccato mortale della nostra società. Qui non si fa differenza tra le classi. In basso, nel mezzo, in alto, si è tutti soli, perché ognuno avverte che di lui a nessuno importa. Si è tutti, ad ogni età, esposti all'indifferenza pubblica, perché ad ogni tua sofferta richiesta risponde una voce meccanica, quando risponde, e quasi mai al tuo tono. Ma si è anche esposti all'indifferenza privata, perché perfino un padre o una madre o sono impigliati nei cento quotidiani problemi da risolvere o si sono votati con ammirevole intransigenza all'esclusiva cura di se stessi, motu proprio esonerati da qualsiasi responsabilità.

Di qui occorre ripartire. Ci s'impegni innanzitutto nella cura delle persone. Se si vuole arginare un fenomeno come quello delle bande di ragazzini, si cominci con l'interrogare questi giovanissimi, conoscerne le difficoltà, comprenderne i bisogni profondi. La stessa repressione pur è necessaria, ma nei limiti in cui vale a mostrare all'individuo deviante l'interesse per la sua sorte e ad insegnargli che ogni desiderio ha un inevitabile limite, non solo e non tanto nella legge, quanto nella ben più dura realtà delle cose.

Si tratta di un'occasione esemplare forse per promuovere la riduzione dell'indifferenza, di cui nella nostra società si nutrono tutte le solitudini. 

Napoli appare spesso come la città in cui si sta tutti insieme, stretti in folla. Ma si tratta in fondo di una maschera, sotto cui si nascondono indifferenza e solitudine vere. Le bande di ragazzini ne sono un drammatico sintomo.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA