Napoli, vedova ottantenne in aula contro il clan Contini: «Una vita nel terrore»

Napoli, vedova ottantenne in aula contro il clan Contini: «Una vita nel terrore»
di Leandro Del Gaudio
Giovedì 10 Febbraio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 18:14
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Ha ripensato agli anni bui della sua esistenza, quelli in cui viveva con le luci spente in casa, nel timore che qualcuno all’esterno potesse fare qualcosa di male a lei e alla sua famiglia. Ha ripensato alla determinazione del marito, scomparso qualche anno fa, nel denunciare boss e estorsori, di fronte alla violenza con cui avevano aggredito il suo patrimonio, alla sofferenza del figlio, tuttora costretto a vivere in località protetta per aver testimoniato contro la camorra di Secondigliano

Non si è tirata indietro, la signora Marianna, una donna di ottanta anni, nel presentarsi in aula, dopo aver dato mandato al suo legale, con una richiesta degna di ogni cittadino che si rispetti: quella di costituirsi parte civile contro il clan Contini, di formalizzare la propria condizione di parte offesa contro i presunti estorsori che hanno avvelenato gli ultimi anni di vita del marito e, per forza di cose, di un intero nucleo familiare.

Una storia emblematica, che porta la firma di una donna che ha appena compiuto ottanta anni, vedova di un imprenditore specializzato nel campo dei rifiuti, aggredito nella parte finale della propria carriera di manager da richieste di denaro a titolo estorsivo.

Oggi, in vista del processo a carico dei presunti taglieggiatori delle aziende del marito (che è morto qualche anno fa, dopo aver sporto denuncia), non si è sottratta ai suoi doveri. Anzi: ha chiesto di esserci, di dare senso e continuità alla scelta del coniuge, di dare un segnale anche a chi - come il figlio - è costretto tutt’oggi a vivere una vita blindata, tra agenti di scorta, località riservate, segnalazioni per ogni genere di spostamento da un punto all’altro. Assistita dal penalista Alessandro Motta (che segue alcuni casi dello sportello della Federazione antiracket e antiusura coordinato a Napoli da Luigi Cuomo), la signora Marianna ha fatto mettere nero su bianco alcune ragioni della sua scelta, quella di non lasciar cadere nel vuoto i sacrifici del marito, ma anche di attestare con la propria presenza in aula il dolore sofferto in questi anni. 

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Fatto sta che, al di là dei danni economici subiti dal presunto pressing estorsivo sulle attività imprenditoriali della famiglia - la donna lamenta la ferita psicologica e morale di chi ha vissuto nel terrore di ritorsioni e vendette. È il capitolo buio dei silenzi e dell’isolamento, che purtroppo rischia di accanirsi contro chi ha avuto il coraggio di ribellarsi al racket, di chi ha trovato la forza di affidarsi alle istituzioni. Ma qual è la storia che la vedova chiede che venga riscontrata nel corso di un processo dinanzi ai giudici napoletani? Tra gli imputati, ci sono soggetti del calibro di Salvatore Botta (classe 1950), Salvatore Botta (classe 1982), Vincenzo Tolomelli (classe 1957), ritenuti esponenti di vertice del clan Bosti-Contini, costola forte dell’Alleanza di Secondigliano. Stando alle indagini del pm anticamorra Ida Teresi, il clan impose la cessione nelle mani di un proprio prestanome di una cappella gentilizia del valore di 110mila euro. Una scena da brividi, a leggere le carte della Dda di Napoli, con un imprenditore costretto a recarsi da un notaio (ovviamente ignaro dello sfondo di prepotenza mafiosa), a firmare una vendita di un bene di famiglia a un presunto prestanome del clan (ben sapendo che non avrebbe ottenuto un centesimo da quella cessione). 

Pochi giorni fa, la prima udienza dinanzi al giudice napoletano, processo aggiornato al prossimo 16 marzo, boss e gregari sono già formalmente a giudizio. Poche le parti offese che hanno scelto di costituirsi parte civile dinanzi ai giudici (almeno rispetto agli episodi di estorsione ricostruiti finora dagli inquirenti), non sfugge la sagoma di una donna. Moglie, madre, oggi vedova dotata di una buona dose di memoria. Proviamo a leggere l’ultima parte della sua istanza presentata in Tribunale: «Costretta a vivere nel terrore costante di poter subire ritorsioni in via diretta e nei confronti dei propri cari, solo per aver deciso di reagire denunciando i fatti come contestati». Un modo diretto di camminare a testa alta, contro chi le ha imposto anni di paura e silenzio. 

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