Li hanno trovati che tagliavano e cucivano, che incollavano e limavano, che chiudevano e aprivano stock di abiti usati, per poi ricavarne altri indumenti, da spedire magari in mezzo mondo, fedeli a commesse che si cibano di finanziamenti pubblici. Li hanno trovati che avevano abiti da lavoro, che maneggiavano forbici e ferri da stiro, che armeggiavano con macchine da cucire, senza dimenticare poi solventi e colle da maneggiare con cura, sempre e comunque da non inalare, perché in questi casi non c’è alcuna copertura assicurativa in grado di proteggere il singolo lavoratore.
Li hanno trovati così, gli uni accanto agli altri: operai specializzati, con tanti di busta paga; e operai specializzati in nero, ma che alle loro spalle possono contare sul reddito di cittadinanza. Eccoli, dunque: siamo in via Argine, uno degli avamposti della ripresa economica cittadina. Foto e informative di polizia giudiziarie sono impietose: sono un piccolo esercito di lavoratori in nero, chiusi nella stessa fabbrica, probabilmente collegati alla stessa rete di imprese a loro volta esplose negli ultimi anni, a proposito di uno dei business dell’economia nostrana, quella equo e solidale (in questo caso solo sulla carta): parliamo del cascame tessile, un settore legato al riciclo degli indumenti usati, quelli - per intenderci - che decidiamo di dismettere, svuotando guardaroba e portandoli nei contenitori sotto casa per la prima forma di conferimento.
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Lavoratori in nero, via Argine, Napoli est, dunque: blitz dell’ufficio ispettorato e della polizia municipale, c’è una inchiesta della Procura di Napoli. E spuntano subito un paio di conferme, a proposito di emergenze figlie di una crisi sanitaria che è stata anche e soprattutto crisi economica, in uno scenario aggravato dalla crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina: ad essere identificati come lavoratori in nero sono operai italiani; e sono tutti titolari di reddito di cittadinanza. Sono giovani e anziani, uomini e donne.
Inchiesta condotta dal pm Giuliana Giuliano, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Simona Di Monte, in uno scenario investigativo che ha fatto emergere alcuni riscontri tutt’altro che secondari. Stando a quanto raccolto fino a questo momento, i dipendenti irregolari potevano contare tutti sulla stessa paghetta giornaliera: venti euro al giorno, al netto di almeno otto ore di lavoro. Mercato della sopravvivenza, della manodopera infinita, ma anche dell’accordo sottobanco per chi preferisce incollare tessuti per pochi euro senza rinunciare al reddito di cittadinanza. È il mercato dei cascami tessili, uno degli asset di una certa economia domestica, che è stato traslato all’interno di opifici, aziende, Coop legate a questo specifico indotto economico. E non è tutto. Al centro delle verifiche i rapporti tra le aziende trovate con manodopera non regolarizzata e gli enti locali. Quello dei cascami tessili, infatti, è un’attività economica che in genere viene appaltata per portare a termine la catena del riciclo di indumenti usati. Si va dalla raccolta al conferimento alle singole aziende, che hanno poi il compito di differenziare i tessuti, scucendo e valorizzando le varie componenti, fino a ricavare stoffe da usare in alcuni settori, specie per quanto riguarda la composizione di tute da lavoro a basso costo (che vanno fortissimo in alcuni mercati non italiani). Ma c’è un altro versante che merita di essere esplorato. E riguarda la definizione delle commesse. Sono in corso verifiche sui finanziamenti pubblici che hanno nutrito attività formalmente corrette, grazie a una catena di subappalti che - sotto traccia - arrivano ai singoli lavoratori in nero. Verifiche in corso per capire se ci sono legami con Asia e con gli enti pubblici che commissionano e finanziano la raccolta di indumenti usati.