Violenza sulle donne, Lucia in fuga dal marito dopo 14 anni di abusi: «Donne, denunciate»

Violenza sulle donne, Lucia in fuga dal marito dopo 14 anni di abusi: «Donne, denunciate»
di Giuliana Covella
Domenica 29 Novembre 2020, 17:22 - Ultimo agg. 21:49
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«Dalla violenza si può uscire. Denunciate, così mi sono salvata da quell’inferno». Appare rinata a 39 anni Lucia Caiazza (nella foto, a sinistra, con i capelli neri lunghi), nella sua nuova vita, quella dove ha un lavoro come addetta alle pulizie, una casa in affitto e le sue tre figlie (una di 15 anni e due gemelle di 4) accanto. Il passato, quello fatto di 14 anni di violenze, mortificazioni e umiliazioni quotidiane da parte di un marito che diceva di amarla, sembra essere solo un lontano ricordo. Il ricordo tuttavia di un incubo, dal quale per fortuna si è svegliata. Quando? «Due anni e mezzo fa, quando ho trovato la forza di fuggire via da quell’uomo». Oggi Lucia, originaria del centro storico, è una persona diversa, seguita dagli operatori della cooperativa sociale Dedalus impegnata nel sostegno alle donne che subiscono violenza dal 2001, attraverso case d'accoglienza in beni confiscati alla camorra. Mentre ci racconta la sua storia Lucia sta per raggiungere una manifestazione contro la violenza insieme a Manila, l’operatrice di Karabà, una casa per donne maltrattate ad indirizzo segreto gestita da Dedalus che ospita vittime di violenza domestica e di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale e che dal 2008 ad oggi ha ospitato 258 persone (donne e minori). 

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Quando sono cominciate le violenze?
«Appena sposata.

Ero al secondo mese di gravidanza, in attesa della nascita della mia primogenita I., che oggi ha 15 anni. Mio marito mi impediva di usare il cellulare, di avere contatti con chiunque, finanche con la mia famiglia ed era molto geloso. Mi picchiava e mi insultava ogni giorno».

Perché accadeva?
«Lui si arrangiava con lavori saltuari ed era sempre nervoso, faceva uso di sostanze stupefacenti e di alcol. Quando tornava a casa mi riempiva di botte, calci, pugni, schiaffi. Mi diceva parolacce e mi faceva sentire una nullità».

Poi?
«Dopo un periodo in cui decisi di lasciarlo trasferendomi dalla mia famiglia d’origine, ci riconciliammo e tornai da lui. Credevo potessimo essere una famiglia felice, mi ripetevo “ha sbagliato, ma prima o poi cambierà”. Invece appena rimisi piede in quella casa ricominciò il mio inferno: percosse, litigi e insulti quotidiani».

Quando ha deciso di abbandonarlo?
«Era il 18 giugno 2018, ricordo quel giorno come fosse ieri perché è la data di quella che io chiamo la mia liberazione».

Cosa accadde?
«Dopo l’ennesimo litigio e le botte che mi dava il padre, mia figlia maggiore mi indicò la finestra del piccolo appartamento dove vivevamo e mi disse “mamma, la vedi quella? Uno di questi giorni mi butto di sotto”. Lei assisteva sempre alle violenze che subivo dal padre. In quell’istante decisi che avrei dovuto proteggere me e le mie figlie e scappai via».

Dove andò?
«Presi le bambine, i pannolini, un pacco di salviette imbevute e i 5 euro che avevo in tasca. Poi andai in questura a denunciare mio marito».

Chi l’ha accolta?
«Alla polizia dissi subito che non avevamo un altro posto dove andare, così ci misero in contatto con i servizi sociali e da lì siamo state accolte per 9 mesi in una casa di accoglienza, Karabà, che ospita donne maltrattate. Oggi a sostenermi è la cooperativa Dedalus con la responsabile Area Accoglienza Donne Tania Castellaccio. Insieme a Manila, l’operatrice di Karabà che mi accompagna sempre, sono diventate la mia famiglia».

Come si sente oggi?
«Una donna realizzata, fiera, libera. Ho tutto. Una casa, un lavoro e soprattutto le mie figlie accanto».

Lei è diventata anche un’attivista per i diritti delle donne. Il 25 novembre infatti ha partecipato al presidio di “Non una di meno” a piazza Dante. Che messaggio vuole lanciare alle vittime di violenza?
«Devono liberarsi da quelle catene, perché gli uomini violenti non cambiano. Non devono subire in silenzio, ma trovare la forza di denunciare e riprendersi la propria vita, come ho fatto io».

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