Non fu omicidio premeditato: pena ridotta al killer del calciatore napoletano

Non fu omicidio premeditato: pena ridotta al killer del calciatore napoletano
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 28 Giugno 2019, 23:00 - Ultimo agg. 29 Giugno, 11:30
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Non fu un omicidio premeditato, non fu un delitto consumato per chiudere i conti dopo un precedente litigio. È stata questa valutazione a spingere il giudice a condannare l’assassino di Raffaele Perinelli a una pena decisamente più bassa rispetto a quella richiesta dal pm: 17 anni per Alfredo Galasso, molto meno rispetto ai trenta anni avanzati al termine della sua requisitoria dal pm in aula. Omicidio volontario, ma senza premeditazione, senza l’aggravante dei futili motivi: parole che valgono come una rasoiata sulla pelle per i parenti del giovane terzino sinistro della Turris calcio ammazzato mesi fa a Miano.
 
Masticano amaro, dopo aver chiesto una condanna esemplare, di fronte al verdetto pronunciato dal giudice per le udienze preliminari Pietro Carola. Aula bunker, si chiude in tempi record il rito immediato sulla notte di Miano. Ricordate? Siamo tra il sei e il sette ottobre scorsi, all’esterno di un circoletto, quello solitamente frequentato da Alfredo Galasso, quando si consuma l’atto finale di una tragedia per molti versi banale. Schiaffi, pugni, Galasso impugna il coltello e colpisce al petto Perinelli. Inutile la corsa in ospedale, l’assassino si consegna ai carabinieri di Casoria e confessa. Un giovane atleta ucciso senza un motivo, ennesimo dramma della periferia napoletana. Qual è il movente? Che storia c’è dietro? Appena sette giorni prima del delitto, siamo nel pieno della coda estiva napoletana, i due erano venuti alle mani all’esterno di una discoteca a Coroglio, sempre e comunque per motivi di scarso peso. Uno sguardo, una spallata, le mani. I due vengono divisi, ma non è finita. Sulle prime si diffonde la notizia di una caccia all’uomo per l’intera settimana da parte di Galasso nei confronti di Perinelli, ma i riscontri emersi nel corso del processo raccontano l’esatto contrario. 

Difeso dai penalisti Luca Gagliano e Rocco Maria Spina, Galasso sostiene l’esatto contrario: si era sì armato di un coltello, ma aveva preso questa decisione solo per difendersi da un possibile aggressione. Brutta storia, una vita spezzata, rabbia e dolore. «Amava il calcio, lavorava, era sempre disponibile con tutti - hanno più volte chiarito i parenti della vittima - è stato ucciso senza pietà da un uomo armato, non ha avuto la possibilità di difendersi». 

In carcere dallo scorso ottobre, Galasso ha invece sostenuto un’altra versione dei fatti. Fermo restando il dolore per aver stroncato la vita di un ragazzo, l’imputato ha provato a raccontare il carattere estemporaneo del delitto, sicuramente non premeditato. Armato sì, ma per la paura di essere aggredito. Momenti di tensione ieri mattina nel chiuso dell’aula bunker del carcere di Poggioreale, dove si è celebrata l’udienza conclusiva del processo. In un paio di occasioni, l’intervento dei difensori di Galasso è stato interrotto dai parenti della vittima, ma si è trattato di reazioni dettate dal carico emotivo accumulato in questi mesi.
Al centro del dibattimento, anche alcuni messaggi tramite whatsapp tra la vittima e un terzo ragazzo - comune conoscente di Galasso e Perinelli - che si era offerto di fare da paciere. Messaggi che devono aver convinto il giudice a dimezzare quasi la richiesta di condanna della Procura, al termine di un processo che ha offerto scene già viste: violenza gratuita, una giovane vita spezzata senza alcun motivo, la richiesta di un verdetto esemplare da parte della famiglia della vittima. Probabile nuovo round in appello. 
 
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