Pompei, il mistero della biga che la camorra fece sparire

Pompei, il mistero della biga che la camorra fece sparire
di Dario Sautto
Lunedì 11 Gennaio 2021, 23:30 - Ultimo agg. 12 Gennaio, 11:10
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«Nel 2001 il clan Cesarano venne a sapere che in un frutteto di via Civita Giuliana, tra Pompei e Boscoreale, alcuni tombaroli avevano ritrovato un carro, una biga, ma non avevano avvisato i boss. Così alcuni affiliati intervennero immediatamente, li minacciarono e requisirono la biga, senza versare neanche una lira». Il mistero della biga romana trafficata dalla camorra di Castellammare si perde nei verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia, che per anni ha raccontato all’Antimafia i segreti sul clan fondato da Ferdinando Cesarano, boss di camorra che in Italia detiene il record degli ergastoli (una trentina) e, dopo un clamorosa fuga dall’aula bunker di Salerno, è detenuto da oltre vent’anni al regime del carcere duro, dove si è persino laureato due volte anche con una tesi proprio sul 41-bis.

Lo stralcio dell’interrogatorio del pentito Saverio Tammaro, alias «’o principe», è riemerso ieri mattina in aula, durante il processo a due presunti tombaroli accusati di aver saccheggiato fino al 2017 la ricca domus di Civita Giuliana, quella in cui sono stati ritrovati i calchi dei cavalli bardati sepolti nella loro scuderia dall’eruzione del 79 d.C., dove cresceva la bambina Mumia che aveva inciso il suo nome su uno dei muri riportati alla luce lo scorso anno e dove sono emersi i calchi di altri due esseri umani, morti nel criptoportico della lussuosa villa esterna alle mura dell’antica Pompei. La rete di cunicoli – oltre 50 metri scavati a 5-7 metri di profondità – aveva lambito anche quei resti umani, come ha confermato ieri in aula il brigadiere Salvatore Sorrentino, testimone dell’accusa rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, che per la Procura di Torre Annunziata ha coordinato le indagini condotte anche dai carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale di Napoli del maggiore Giampaolo Brasili.

 

Il mistero della biga pompeiana, però, si perde insieme a quel verbale, che racconta degli interessi del clan Cesarano nel traffico internazionale di opere d’arte e reperti archeologici, che sul mercato nero hanno ancora un grosso appeal tra i collezionisti, in particolare americani, cinesi e arabi. Dal 2001 ad oggi, quel carro di epoca romana potrebbe essere finito all’asta più volte ed oggi essere il pezzo pregiato della collezione privata di qualche magnate, anziché essere esposto in un museo. È stato restituito al Parco Archeologico di Pompei, invece, uno dei dipinti tagliati e portati via dalla stessa domus durante i saccheggi. Parzialmente rovinato – raccontano gli atti che oggi fanno parte di un processo in corso presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere – l’affresco trafugato dai tombaroli pompeiani Giuseppe e Raffaele Izzo e Rosa Balzano era stato rivenduto da Benedetto D’Aniello, ritenuto uno dei più esperti trafficanti di opere d’arte di Sant’Antonio Abate, e finito nel laboratorio del restauratore casertano Michele Messina, dove è stato sequestrato dai carabinieri.

All’affresco originale, però, sarebbe stata applicata una pittura moderna con stile greco-romano, per renderla più appetibile sul mercato nero dei reperti archeologici: all’estero in pochi avrebbero notato che si tratta di un clamoroso falso. Quell’affresco adesso è negli archivi della Soprintendenza e, al termine degli scavi, potrebbe tornare al suo posto.

Ieri, però, a processo presso il tribunale di Torre Annunziata c’erano i soli Giuseppe e Raffaele Izzo (padre e figlio, assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Maria Formisano), residenti in un casolare di via Civita Giuliana e proprietari del terreno sotto il quale sorgono i locali nobili della villa, in parte riportata alla luce da privati nel 1907, resa visitabile e poi sepolta nel 1950, raccontata in un volume pubblicato nel 1994 dall’archeologa Grete Stefani, ex direttore degli scavi di Pompei e anche lei testimone dinanzi al giudice Silvia Paladino. Sia il brigadiere Sorrentino che l’archeologa Grete Stefani hanno raccontato la tecnica insolita utilizzata solo per quegli scavi clandestini: realizzato il tunnel, la volta veniva rafforzata con una «spruzzata» di calce fresca per prevenire i crolli.  

Il lungo cunicolo principale – una vera e propria autostrada sotterranea – partiva da una baracca piena di attrezzi e arrivava sia nei locali nobili, sia in quelli rustici, grazie ad una serie di tunnel che entravano nelle varie stanze. Degli oggetti preziosi ritrovati negli scavi di inizio ‘900 non resta niente: le bombe della seconda guerra colpirono l’ala dell’antiquarium che li ospitava. Quelli saccheggiati dai tombaroli, invece, sono in giro per il mondo.

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