Napoli, il racket delle pizzerie: «Così ho convinto mio padre a ribellarsi ai clan»

Napoli, il racket delle pizzerie: «Così ho convinto mio padre a ribellarsi ai clan»
di Viviana Lanza
Venerdì 8 Novembre 2019, 07:30 - Ultimo agg. 10:00
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«Oh ma cosa gli avete fatto a quello?... È uscito da qua bianco bianco». «Gli ho detto che deve dare 500 euro senza perdere tempo... Si è fatto un pianto esagerato». Il viso pallido, rigato dalle lacrime, è quello del figlio di uno storico commerciante della zona dei Tribunali. È un giovane sulla ventina, nato e cresciuto tra i vicoli e la bottega del padre dove lavora a tempo pieno, affettando carni e salumi e servendo i clienti al banco. È l'8 aprile 2017 quando Roberto (nome di fantasia) si incammina in vico Maiorani, una strada percorsa mille volte, con il sole e con la pioggia, con la spesa da consegnare a domicilio, anche a quella gente legata alla camorra che ordina e alla fine non paga.
 

 

«Fanno la spesa tutti i giorni accumulando un debito di 4/5mila euro» dirà ai carabinieri che lo convocano in caserma perché indagando sul racket ai Tribunali hanno scoperto che anche il negozio della famiglia di Roberto è stretto nella morsa delle estorsioni targate Sibillo. Sarà lui a rompere il silenzio e a spingere anche il genitore a denunciare. Gli investigatori hanno già i video ripresi dalle telecamere installate strategicamente nei vicoli, le intercettazioni dei colloqui e una serie di indizi raccolti nel corso delle indagini. Quella di Roberto è una storia di racket come le tante che si verificano nel centro storico di Napoli e altrove. Ed è ora tra i fatti al centro dell'inchiesta della Dda che l'altro giorno ha fatto scattare misure cautelari per ventidue indagati, tra reggenti, gregari e le donne del clan Sibillo.

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«Robe' un pensierino per Pasqua ce lo puoi fare?» gli chiedono quelli del clan quando Roberto arriva a casa dei Napolitano in vico Maiorani. Lo hanno convocato Giovanni Ingenito e Giovanni Matteo, i cugini del boss Pasquale Sibillo indicati come gli attuali reggenti del gruppo («Comandano i cugini»). Lui, piccolo commerciante, non poteva sottrarsi. «Cinquecento euro ce li puoi mandare?» gli chiedono. È un'estorsione, ancora un'altra. Solo pochi mesi prima il padre di Roberto aveva versato 600 euro pretesi dai boss per pagare le spese legali. Di fronte a quella nuova richiesta Roberto si sente mancare il fiato: «Non lo so, adesso parlo con mio padre, però penso che sono un po' esagerati... Sapete i problemi che ci sono oggi, le cose non vanno a gonfie vele... Siamo amici, siamo cresciuti insieme» dice tra le lacrime. Ma nessuno si impietosisce, anzi quando va via commentano: «Penso che gli devo mettere le mani addosso e ti dico di più, mi deve dare anche la spesa tutte le settimane, tutti i sabato». Due giorni dopo, il 10 aprile, Roberto torna a casa dei Napolitano. Ha in mano una busta bianca, dentro ci sono i soldi della tangente, poco meno di quanto richiesto. Le telecamere nel vicolo riprendono la scena. Ma la busta sarà recapitata solo in un secondo momento, quando in casa c'è chi è deputato a incassare per i cugini.
 

«Pagano tutti» si sente rispondere il padre di Roberto quando va a lamentarsi delle richieste insistenti di tangenti. Come se fosse una legge del quartiere a cui viene consigliato di adeguarsi. Perché «se non li volete dare (i soldi, ndr) quelli mica non fanno niente... Quelli appena tengono la giornata storta o una cosa loro vi fanno la cattiveria». Il rischio è la ritorsione, l'incendio del negozio o l'avvertimento a colpi di pistola. Per questo «pagano tutti». Lo spiega bene l'amico dei boss. E ascoltando i colloqui fra gli indagati si scopre che c'è un vero e proprio tariffario: 100/150 euro a settimana da versare ogni sabato, maxirate tra 500 e tremila euro in occasione di Pasqua, Natale e Ferragosto. «Comunque io gli ho detto tutto. Papà, gli ho detto tutto!». Dopo mesi di vessazioni, dopo anni di paure e sconforto, le parole che Roberto dice al padre suonano quasi come una liberazione. È fine maggio 2017. Padre e figlio sono convocati dai carabinieri che già sanno delle vicende estorsive e intercettano i loro discorsi in sala d'attesa. Il padre è reticente, non vuole parlare del pizzo pagato: «Gliel'ho detto che non abbiamo mai pagato a nessuno, a stento andiamo avanti noi... Ho detto che quelli vengono ma gli do i panini, la spesa, queste cose qua». Trascorrono le ore. A un certo punto Roberto sbotta: «Tengono i video, sanno tutto...
Ma come fai a dire che non sai niente se sanno addirittura che ho portato i soldi là sopra e che quando sono sceso stavo piangendo». E così Roberto racconta le pressioni del racket, la paura, la rassegnazione con cui ogni volta racimolavano i soldi fino a pensare che «alla prossima richiesta avrei consegnato le chiavi del negozio, chiudendo l'attività».

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