«Rapine a 12 anni, spaccio a 14 e in tasca hanno tutti un coltello»: la denuncia del centro per giovani a Napoli

«Rapine a 12 anni, spaccio a 14 e in tasca hanno tutti un coltello»: la denuncia del centro per giovani a Napoli
di Maria Chiara Aulisio
Domenica 21 Gennaio 2018, 11:23 - Ultimo agg. 11:47
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A dodici anni hanno già messo a segno scippi e rapine, a quattordici consumano e spacciano sostanze stupefacenti. In una tasca portano il cellulare, nell'altra il coltello, «status» ormai imprescindibile al pari dello smartphone. Basta fare un giro nelle strade che circondano piazza Carlo Terzo per vederli lì, tutti insieme, in attesa di entrare in azione mentre smerciano un pezzo di hashish all'ultimo cliente. Le ragazzine invece non aspettano altro che sposarsi e fare figli: a partire dai quindici anni sono pronte e guai a convincerle che prima sarebbe meglio andare a scuola o imparare un mestiere per guadagnarsi la vita e l'autonomia: «Non ci pensate proprio: a sedici anni quel che conta è solo la ricerca del marito, di gravidanze precoci ne vediamo tantissime e nonne a quarant'anni pure». Giuseppe Marino, coordinatore del centro diurno dell'Opera don Calabria, in via Foria, a due passi da quella fermata del bus dove il giovane Arturo è stato accoltellato da una baby gang, racconta il lavoro di ogni giorno svolto nell'istituto religioso con programmi riabilitativi, formativi e assistenziali rivolti agli «ultimi», che nelle diverse realtà locali hanno come protagonisti i minori, i ragazzi, i disabili, i detenuti e le persone bisognose di cure mediche: «Lavoriamo con cinquanta minorenni, - racconta - per conto del Comune di Napoli ne seguiamo in convenzione anche altri venti. Poi ci sono i giovani del territorio: li accogliamo dalla prima elementare fino al diploma».

Hanno da sei anni in su, frequentano il dopo scuola, partecipano ai laboratori didattici e alle attività ludiche che gli operatori di via Foria cercano di organizzare nel disperato tentativo di portarli via dalla strada: «Arrivano qui da noi su segnalazione dei servizi sociali, dalle parrocchie o solo perché sono le loro famiglie a chiedercelo. Li accogliamo alle 13.30 e vanno via alle 18.30, pranzo e trasporto incluso. Per ognuno di loro mettiamo in atto interventi educativi personalizzati: non sarebbe mai possibile gestirli tutti allo stesso modo, le storie sono completamente diverse».
«Bambini adultizzati» li chiama Giuseppe Marino, dall'atteggiamento aggressivo e prevaricatore: «Emulano i comportamenti che insegna la strada dove trascorrono gran parte del loro tempo, ma anche quelli che purtroppo vivono in famiglia dove spesso i genitori stanno in carcere e quando invece ci sono offrono modelli sbagliati». E le storie parlano. Uno di loro, tra i più piccini, aveva avuto l'ordine dalla madre di menare sempre e chiunque perché mai sarebbe dovuto accadere il contrario: «Una volta capitò che un ragazzino gli diede uno schiaffo, lui per fortuna non rispose - racconta ancora Marino - mi pregò di non dirlo mai alla madre perché altrimenti l'avrebbe picchiato anche lei. L'atteggiamento mentale delle famiglie è quello di insegnare ai figli a cavarsela nella vita di strada. E in che modo? Con la cultura delle violenza e della sopraffazione, quasi fosse una forma di protezione: se ti fanno del male tu fagli peggio. Loro naturalmente eseguono».

Così si passa dallo schiaffo al coltello e poi alla pistola. Tra gli ospiti dell'Opera don Calabria, in gran parte ragazzini di quella zona, o nano - accusato di essere uno dei quattro del branco sospettato di aver partecipato al raid del 18 dicembre in via Foria contro il giovane Arturo - lo conoscono un po' tutti: «Infatti la prima reazione è stata omertosa, li ho interrogati a lungo, ho cercato di farli parlare il più possibile. Prima hanno iniziato a denigrare la vittima, chissà che ha fatto, chissà che avrà detto, come se Arturo se lo fosse meritato, quando poi gli ho spiegato che in nessun caso si sarebbe mai potuta giustificare una violenza del genere, siamo riusciti ad avviare un ragionamento meno assurdo». Fatale l'influenza di Gomorra: «Dal modo di parlare a quello di vestirsi si comportano allo stesso modo pure se hanno dieci anni. - aggiunge Giuseppe Marino - Una emulazione costante. Chi non mi crede è invitato a venire un pomeriggio qui da noi: atteggiamento identico a quello dei boss della serie, anche le parole, le frasi fatte. E poi le scarpe, i capelli, tutto. Non hanno perso una sola puntata che veniva commentata nei dettagli il giorno dopo. A questi bambini invece andrebbe restituita la loro età, fatta di cartoni animati e non Gomorra. Di scuola frequentata perché è importante, non per arrivare presto a sedici anni e non andarci mai più».

 

Bambini ma già adulti e bene avviati sulla strada della criminalità: «Il coltellino lo portano tutti - prosegue l'operatore - è diventato una emanazione delle loro mani. In una tasca c'è il telefonino, nell'altra hanno l'arma. Scippatori e rapinatori a dieci anni, spacciatori a dodici: l'età in cui iniziano a delinquere si sta abbassando sempre di più». Poi il fenomeno del branco che si concretizza anche all'interno di strutture riabilitative come l'Opera don Calabria: «Si mettono insieme perché in tanti è tutto più semplice. Come a dire: ci scegliamo perché ci intendiamo. Soprattutto nelle prime fasi di ingresso abbiamo diversi problemi con la formazione di questi gruppi. Poi la situazione migliora. Il più bullo è quello che ha capacità di leadership: noi cerchiamo di trasformare questa attitudine dal negativo in positivo. In che modo? Affidando ai capi compiti da leader da indirizzare però verso attività finalizzate al recupero e al reinserimento. Facciamo un grande lavoro con questi ragazzi e ne varrebbe la pena fosse pure per salvarne uno solo».
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