«Ti devo ammazzare i figli», così il branco di Mergellina scatenò il terrore

«Ti devo ammazzare i figli», così il branco di Mergellina scatenò il terrore
di Giuseppe Crimaldi
Mercoledì 15 Novembre 2017, 10:45 - Ultimo agg. 17:40
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«Ma che vai di fretta? Non vedi che ci siamo noi? Scendi dalla macchina e facci vedere che vuoi fare...». Delinquenti comuni e camorristi escono da un'identica scuola: la matrice quella della prevaricazione. Quando ci si sente forti, solo per il fatto di portare un cognome «pesante» come quello degli Amato di Scampia - o anche solo se il resto del gruppo ti fa sentire le spalle coperte - allora ci vuol poco a fare i «guappi». Ma erano, sono, restano e saranno sempre solo guappi di cartone, come da secoli a Napoli si indicano i quaquaraquà che Leonardo Sciascia catalogava nel «Giorno della civetta».

Per capire che cosa siano realmente le notti violente della movida napoletana bisogna scorrere le carte che riassumono i verbali d'indagine che hanno portato - grazie a un'indagine della polizia - all'arresto degli otto presunti responsabili del linciaggio di un servitore dello Stato: uno degli agenti della Questura di Napoli che fuori servizio si è visto aggredire a Mergellina alla fine del giugno scorso.

Otto violenti. E, per una volta, la parità dei sessi è stata rispettata. Perché nelle «quote rosa» della criminalità che infetta il tessuto sano di una città che prova e riesce a rinascere anche grazie al turismo, lungo uno degli itinerari più battuti da napoletani, forestieri e stranieri - il Lungomare più bello del mondo - c'è chi spadroneggia e violenta le persone perbene. Leggiamo allora quelle pagine dell'ordinanza che ha spedito agli arresti i componenti del branco violento. A cominciare dal ruolo che - secondo la Procura - avrebbe avuto una donna. Lei è Monica Amato, classe 1988. Nipote di personaggi legati alla malavita organizzata di Scampia (zii fondatori del clan degli Scissionisti di Scampia, e madre finita mesi fa in carcere per essere ritenuta dalla Dda partenopea una delle reggenti della cosca) la quale avrebbe incitato, esortato, invitato ad ammazzare il poliziotto in borghese a Mergellina. «Tiene una pistola, è una guardia, sparalo, sparalo!». L'invocazione finita agli atti dell'inchiesta è quella lanciata dalla Pagano. Capelli biondi e lunghi: le vittime l'hanno riconosciuta nel corso delle indagini.
 
Quando l'agente aggredito - L. I., in servizio da anni alla Squadra mobile di Napoli, si accorge di essere finito in un agguato, la prima cosa che intuisce è la sicurezza della consorte e dei suoi due figlioletti che siedono sul sedile posteriore della Opel Zafira. «Mentre in due mi aggredivano, altri colpivano con i loro caschi i vetri posteriori dell'abitacolo, dove erano seduti i miei due figli. L'uomo che mi picchiava aveva volutamente fatto intravedere nella cintola dei pantaloni una pistola di colore nero. Poi - dopo che mi ero qualificato come poliziotto - mi ha detto: Guardia di merda. Sotto gli occhi terrorizzati dei due ragazzini che hanno appena nove e 12 anni, e della moglie del poliziotto la situazione si fa sempre più critica. E quando l'agente si qualifica ed estrae la pistola calibro 7,65 per esplodere quattro colpi in aria nel tentativo di difendere la propria famiglia, ecco arrivare un secondo soggetto. «Era un uomo alto circa un metro e 70, con capelli rasati, barba incolta e tatuaggi sulle braccia, il quale impugnava una pistola e procedeva nella mia direzione - spiegherà L.I. -. Continuava a fissarmi e diceva provocatoriamente: Adesso sei solo, fammi vedere che fai, sparami, sparami!».

«Nonostante le continue percosse alla testa - prosegue L.I - riuscii ad esplodere un secondo colpo in aria. In queste fasi concitate udii una voce femminile che diceva testualmente agli altri componenti del gruppo: La pistola del guardio è finta!. E mentre mia moglie subiva a sua volta pugni e calci, vidi il primo aggressore che si avventava sull'auto dove c'erano i miei bambini. Colpendo ripetutamente i finestrini sul lato posteriore dell'auto, dov'erano seduti, l'uomo urlava: Ti devo uccidere i figli!».

La rapina, l'oltraggio. A quel punto è il caos. E mentre decine e decine di auto e di passanti si voltano dall'altra parte per non guardare, mentre L.I. rimane solo contro tutti, ecco consumarsi l'estremo oltraggio. Non ancora paghi della furia scatenata su una inerme famiglia, gli aggressori si accaniscono sull'agente gravemente ferito e sanguinante. E gli scippano l'orologio: «Un orologio senza valore commerciale - spiegherà poi in Questura - ma che per me aveva un immenso prezzo, giacché era quello che portava mio padre al polso. Un ricordo di famiglia. «Mi immobbilizzarono il braccio sinistro strappandomi l'orologio dal polso sinistro - ha spiegato la vittima -. Pur ferito, tentai di reagire, ma a quel punto venni raggiunto da una nuova gragnuola di colpi alla faccia. In quel momento il mio pensiero era tutto rivolto a mia moglie e ai miei figli. E così esplosi un terzo colpo, sempre in aria. L'azione servì all'effetto desiderato: e solo a quel punto gli aggressori si dileguarono con gli scooter, tranne uno: era alto un metro e settanta e continuava a gridare ai suoi complici: Vai! Ce l'abbiamo, ce l'abbiamo!».

Vittime e testimoni, per la cronaca, hanno riconosciuto senza ombra di dubbio gli autori dell'ignobile raid. Testimonianze preziose che - unite ai riscontri forniti dai riconoscimenti delle targhe dei motocicli - hanno fatto chiudere il cerchio. Assicurando alla giustizia otto violenti. Ma una domanda ce la poniamo ugualmente: le strade della movida napoletana, da oggi, riusciranno ad essere più sicure?