In prima linea da quel 24 febbraio, all’inizio insieme a tanti cittadini e alle istituzioni. Poi sono rimasti soli. «Ci hanno abbandonati quasi tutti», dice sconsolato padre Giuseppe, direttore del centro giovanile dei Giuseppini del Murialdo, grandissima struttura da sempre al fianco della comunità di San Giuseppe Vesuviano. Da qui, nel tempo, sono passati i profughi sbarcati a Lampedusa ma anche tanti ragazzi finiti nel tunnel della droga o risucchiati dalle loro fragilità. Appena è scoppiato il conflitto in Ucraina le porte si sono subito aperte per ospitare chi aveva perso tutto. Cinque, dieci, venti, fino a un totale di 35 persone. Soprattutto donne e bambini, ma anche anziani e ragazzi. Arrivavano, in quelle giornate convulse, anche i politici a fare passarella. Arrivavano pacchi alimentari, coperte, abiti raccolti dalle famiglie di tutta la zona. Ma è durata poco. «Adesso nessuno s’interessa più di noi e di questa emergenza, nessuno sa indicarci le strade da seguire per dare un futuro a queste sfortunate persone», racconta il sacerdote.
Si tratta, soprattutto, di trovare fondi adeguati al sostentamento quotidiano. Soldi per cibo, medicine, igiene personale. Necessità per le quali il Centro ha praticamente dato fondo ai suoi risparmi. Grazie ai volontari e ad alcuni imprenditori, fino a un certo punto si era riusciti a creare un flusso di soldi accettabile per garantire un’ospitalità dignitosa a queste famiglie. «Avevamo preso in prestito le parole di una canzone di Mengoni, “mentre il mondo cade a pezzi… io compongo nuovi spazi e desideri… che appartengono anche a te!” come uno slogan abbinato a un Iban su cui far confluire i fondi – spiega una delle volontarie, Gina Meo, dell’associazione Cittadini per l’ambiente – in tanti, all’inizio hanno risposto.
Barriere burocratiche che padre Giuseppe, e tutti i ragazzi volontari del Centro che lo stanno aiutando, non sanno superare. «Abbiamo chiesto alla Caritas ma anche alla Protezione civile e in Comune. Nessuno sa indicarci la via da prendere. Ma non vogliamo perdere la speranza di garantire un minimo di sostegno a questa povera gente che non ha più nemmeno una casa», insiste il sacerdote. In questi mesi le volontarie del Centro sono riuscite a creare spirito di gruppo attraverso mille iniziative, insegnando alle donne a cucinare piatti italiani, spingendole a imparare l’italiano, mentre i bambini, nessuno dei quali in età scolare, sono stati aiutati a vivere nel modo più sereno possibile lo sradicamento dal loro mondo: «Hanno fatto amicizia con i loro coetanei italiani che vengono qui, si sono integrati, giocano con piacere». I ragazzi di padre Giuseppe si sono anche attivati per trovare un lavoro alle giovani mamme, per attenuare i disagi e aprire uno spiraglio di normalità. «Restano però sempre da superare le difficoltà burocratiche», insiste Gina Meo: «Per questo abbiamo bisogno dell’aiuto delle istituzioni e della gente giusta preposta ad affrontare queste difficoltà. Lo chiediamo a gran voce perché non vogliamo che si spenga il sorriso ritrovato di questi bimbi e di queste mamme che fuggono da una guerra assurda scoppiata nel cuore della civile Europa».