Viaggio tra le macerie della «città dei matti» Video

Viaggio tra le macerie della «città dei matti» Video
di Francesco Romanetti
Giovedì 18 Febbraio 2016, 08:39 - Ultimo agg. 16:17
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Antonio venne chiuso in manicomio quando aveva 13 anni. La cartella clinica lo cataloga come «oligofrenico sudicio». Morì qui dentro, in una di queste enormi e spaventose camerate: vecchio e solo. E «sudicio», come quando era arrivato. Alessandro amava la luce e le voci della strada. E chiuso qui non ci voleva proprio stare. Appena ci riusciva, scappava per tornare a casa. Lui bussava, ma nessuno gli apriva.
 



Antonio trascorse tutta la sua vita maledetta in manicomio. Poi un giorno, lo trovarono morto davanti all'uscio di casa. Non gli avevano aperto neanche quella volta. Modestina era figlia di un medico condotto, cresciuta senza madre. Venne internata come «ninfomane». Raffaele invece faceva il panettiere. E finì in manicomio perché «impotente».

A Umberto, violentato dal padre, piaceva profumarsi. La cartella clinica dice che lo avevano dovuto portare in manicomio per «voce e gesti femminili, instabilità nel contegno, fatuo, manierato, puerile» che avevano suscitato «le continue proteste dei coinquilini». Anche lui finì i suoi giorni tra queste mura. Pierina aveva un marito alcolizzato che la picchiava. Un giorno qualcuno chiamò i carabinieri. Ma Pierina diede un morso a un carabiniere che la teneva bloccata. La fecero rinchiudere. Lei non parlò più e la catalagarono come «sordomuta». Quasi mezzo secolo dopo, nel 1998, Pierina potè riabbracciare il figlio. E tornò a parlare.

«Ecco, vede, qui dentro ci sono sessantamila cartelle cliniche. Sessantamila storie di sofferenza e reclusione. Questo è un patrimonio enorme di testimonianze, di storia umana e sociale». La dottoressa Anna Sicolo, direttrice del Polo archivisto sanitario, è oggi l'unica responsabile di quel che resta dell'ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi. Ne custodisce i luoghi, gli archivi, la biblioteca. Anche gli oggetti, che sono parte di una memoria secolare. Su un antico mobile di legno, davanti al suo ufficio, sono allineati soprammobili, tazzine, bamboline di pezza, ninnoli, portachiavi... «Appartenevano agli ultimi degenti - racconta - A volte capita che qualche ex internato o qualche parente venga qui e riconosca qualche oggetto e se lo riprenda...».

Per arrivare alla «città dei matti» bisogna inerpicarsi lungo una salita che si distacca dalla Calata Capodichino. Un alto muro di tufo, costruito per nascondere al mondo dei normali e dei sani gli orrori dell'ex Manicomio Provinciale, costeggia l'immensa costruzione, fatta da un gigantesco corpo centrale e da altre 53 palazzine, da giardini, cortili interni e - oggi - da una vegetazione selvaggia e incolta, che assedia mura e finestre ad arco, portoni e sbarre, inferriate e cancelli. Ci vollero 19 anni, dal 1890 al 1909, per costruire, su un'area di 220mila metri quadrati (di cui 85mila metri quadrari coperti), l'antico Manicomio progettato dall'architetto Tango, poi intitolato a Leonardo Bianchi, il suo primo direttore.

Medico neurospischiatra, politico liberale (fu anche ministro), di formazione positivistica e lombrosiana, innovatore per i suoi tempi, Bianchi eliminò la camicia di forza (poi tornata tristemente in uso tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso), ma introdusse l'elettoshock. Tra queste mura - dal 1909 al 2002 - sono stati rinchiusi sofferenza ed emarginazione, povertà e devianza, ribellione e violenza. E anche dissenso politico. Qui sono stati compiuti misfatti, maltrattamenti, stupri, torture. Qui migliaia di poveri cristi sono stati legati, immobilizzati ai letti di contenzione, schedati come «folli», «pazzi», «matti», «dementi». Cancellati e dimenticati.

Lungo i chilometrici corridoi dei padiglioni invasi da erbacce, entrano solo raggi di sole, tristi penombre e silenzio. Le voci, il mormorìo e le grida dei pazzi, si possono ora solo immaginare, tra queste architetture tetre e surreali, tra i muschi e le edere che si arrampicano sui muri sporchi e screpolati. Un tempo qui venivano stipati fino a 3500 degenti. Tra i padiglioni si aggiravano fino a 2000 tra medici e infermieri. «Questo era anche un feudo elettorale - racconta Mimmo Armento, in forza al Leonardo Bianchi come inserviente dal 1976 e ora uno dei tre collaboratori della dirigente Sicolo - Durante le elezioni venivano allestiti i seggi. Migliaia di voti. Per anni questa fu una roccaforte di Ciro Cirillo, l'assessore poi rapito dalle Brigate Rosse, e di Armando De Rosa. I pazienti venivano portati al seggio dagli accompagnatori. Sì, il Leonardo Bianchi era...democristiano». Davanti a camerate e stanze ci sono porte di legno robusto con spioncini. Per spiare, sorvegliare e punire. Si susseguoo i padiglioni: Donne 1, Donne 2, Padiglione Sciuti (dal nome del direttore succeduto a Bianchi), sezioni 7-8-9-10... Nelle camerate al primo piano ci sono ancora i letti, con le spalliere di metallo. Niente comodini. I pazienti erano privati di tutto. Le poche cose personali che avevano le sistemavano sotto i letti. Restano valigie sventrate, qualche crocifisso, coperte sporche. Nella zona-servizi, tra le enormi cucine, un ritratto incorniciato di Santa Caterina Laboure, «figlia della carità». Al piano terra ci sono strani locali, stanzoni mesti e cadenti. Per esempio: la Rattopperia. Qui venivano confezionate la giacche di tela grezza dei degenti, le lettighe, le camicie di forza. Tra muffe e vetri rotti, sono ancora accatastate balle di stoffa e canapa.

Poi gli ambulatori: Ortopedia, Odontoiatria, Chirurgia. Cartelle cliniche ancora sistemate in qualche armadietto arrugginito, dentiere, lastre radiografiche, boccette di sedativi e anestetici. Le mattonelle scricchiolano sotto i piedi. I passi riecheggiano negli spazi silenziosi. Nella sala operatoria è rimasto il lettino dove venivano fatti distendere i pazienti. Qui veniva praticata anche la lobotomia (ancora fino agli anni Settanta), che svuotava uomini e donne di personalità e identità: ad Auschwitz i medici nazisti facevano qualcosa del genere. «Quando cominciò la mia esperienza al Leonardo Bianchi - racconta Anna Sicolo - mi colpirono soprattutto la puzza, lo sporco, le grida disumane, le figure informi, terrificanti, che vagavano chiedendo ossessivamente soldi e sigarette». Poi, finalmente, con il 1978 arrivò la legge Basaglia. La legge che denunciava l'«istituzione totale», la criminalizzazione del disagio mentale e che - al contrario - criminalizzava i manicomi: veri e propri lager, contenitori e produttori di alienazione e «follia».

Con il 1978, anche il Leonardo Bianchi deve chiudere.
Ma la chiusura, qui come altrove, avverrà attraverso un lunghissimo ed ostacolato percorso, che si concluderà solo nel 2002, quando possono finalmente essere dimessi gli ultimi 750 pazienti (divenuti 70 nel novembre del 2002), smistati in case-famiglie e strutture territorali. E da allora? E ora?L'ex «città dei matti» è un patrimonio architettonico, storico, edilizio e ambientale, ora di proprietà della Regione Campania. Un patrimonio abbandonato. «Adesso - dice la dottoressa Sicolo - spero che con la nuova amministrazione di De Luca ci si renda finalmente conto delle straordinarie potenzialità di riuso di questi luoghi». Che farne del Leonardo Bianchi? Una proposta che ha entusiasmato il sindaco De Magistris e l'assessore Daniele (ma il Comune ha solo parzialmente voce in capitolo) consiste nel creare qui, in queste 53 palazzine, centri culturali da affidare ai Paesi del Mediterraneo. «In questo modo - spiega Anna Sicolo - tutte le strutture potrebbero essere recuperate e ristrutturate con fondi da ripartire tra i Paesi interessati. Napoli sarebbe davvero capitale del Mediterraneo, città-cerniera, luogo di incontro. Di proposte ce ne sono state diverse. L'importante è che questo posto non muoia».