Bretelle rosse e sfogliatelle, le passioni di Necco

Bretelle rosse e sfogliatelle, le passioni di Necco
di Mimmo Carratelli
Mercoledì 14 Marzo 2018, 08:53 - Ultimo agg. 09:51
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Ci vedevamo a un bar di viale Michelangelo, poco distante da casa sua, e arrivava pilotando una grossa macchina, salutato da molti e ossequiato da Mario, il parcheggiatore, che gli suggeriva la manovra per trovare posto. Luigi Necco stava al volante con la sicurezza (finta?) delle sue apparizioni televisive. Gli invidiavo l’eleganza con cui reggeva i pantaloni con due bretelle rosse, diventate per me leggendarie come le bretelle di Larry King e di Giuliano Ferrara. Al bar, frequentato da tipi buffi e originali, diceva di sentirsi come a Novantesimo minuto. Ogni tanto appariva Alessandro Incerto, occhi verdi e volto noto delle fiction televisive. Gigi diceva che era una iattura. Le donne si fermavano solo se c’era l’attore. 
Passeggiando per Napoli con la sua mole e l’andatura a dondolo, riceveva saluti da tutti quelli che incontravamo. «Uì, Necco» e giù qualche applauso. Gigi diceva: «Sono contenti di vedermi perché mi credevano morto. Quando smettiamo di lavorare e di apparire, tutti ti credono morto, non sei più nessuno». Mi raccontava come entrò in Rai: «Mi chiamò Ernesto Fiore, redattore capo della sede di via Marconi. Fui assunto per sostituire Vittorio Mezzogiorno, l’attore. Lui s’era invaghito di Lauretta Masiero e se n’era andato a Roma. Mi lasciò il posto e il suo registratore».
Mi mostrava con orgoglio il passaporto di «cittadino italiano residente in Canada» dov’era stato a lungo. È stato anche presidente di una squadra di calcio. «Era la Sparta della zona Museo-Santa Teresa. La fondai con i gioiellieri Mantovani, con Settembre, Cecere, Esposito. Facemmo la Coppa Musollino, il nome di un presidente del Napoli, e arrivammo ultimi. Avevo il ginocchio valgo e potevo fare solo il presidente».

Mi piace ricordarlo nella stanza piena di libri, con pile di giornali troneggianti su sedie afflitte dal peso della carta, nelle riprese de «L’emigrante», la sua popolarissima trasmissione su Canale 9. Ripiegato sulla poltrona dietro la vasta scrivania del suo irrinunciabile disordine, la telecamera l’inquadrava e, zoomando, ne rivelava il faccione, gli occhiali, i tic, le smorfie e quel suo socchiudere gli occhi per spalancarli improvvisamente sopra le lenti quando i suoi urli di guerra squarciavano i microfoni. Un enorme gatto che faceva le fusa e improvvisamente rizzava il pelo. Abbandonando il tono pacato delle premesse, sfondava la quiete della stanza-studio con l’imperioso vocione accusatore, il suo piccolo giudizio universale contro istituzioni, potenti, imbroglioni e inetti. Gli indici della registrazione impazzivano, i decibel si rivoltavano. Gli urli del Sioux Necco svettavano, uscivano dalla stanza e andavano a colpire un sindaco, un assessore, un politico.

Camminando, si fermava ogni dieci passi. «Mi occorrerebbero polmoni di ricambio o, forse, devo perdere trenta chili. Mi fermo dovunque meno che davanti a una vetrina di sfogliatelle. Le mangerei tutte».

Ci siamo voluti bene. Ciao, Gigi.
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