Toni Servillo torna a Napoli: «La mia Elvira diventa un film di Sorrentino»

Toni Servillo torna a Napoli: «La mia Elvira diventa un film di Sorrentino»
di Titta Fiore
Domenica 6 Gennaio 2019, 13:30
4 Minuti di Lettura
Per la terza stagione, e dopo una tournée internazionale che lo ha portato con successo da Parigi a San Pietroburgo e a una lunga serie di tutto esaurito al Piccolo di Milano, Toni Servillo torna a Napoli con «Elvira», lo spettacolo tratto dalle lezioni del grande attore francese Louis Jouvet sul monologo di Donna Elvira nel quarto atto del «Don Giovanni» di Molière. Una scelta coraggiosa sulla funzione maieutica del teatro e sulla creazione del personaggio, premiata ovunque da numeri record per spettatori e alzate di sipario. Da martedì 8 al 20 di gennaio Servillo sarà al Bellini, dove aveva debuttato, affiancato dai tre giovani partner di questo allestimento, Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri, in una coproduzione Teatri Uniti-Piccolo che, nella tappa napoletana, sarà arricchita da due attività collaterali: domenica prossima, all'Istituto Francese Grenoble, la proiezione in anteprima italiana del documentario «La scene Jouvet» di Benoit Jacquot, e sabato 19 al Bellini, dopo la recita, la proiezione del film «Il teatro al lavoro» che Massimiliano Pacifico ha realizzato sulla messinscena di «Elvira».

Le lezioni di Jouvet formalizzate da Brigitte Jacques, e qui tradotte da Giuseppe Montesano, raccontano tra l'altro la fenomenologia della creazione artistica. È questo che colpisce al cuore gli spettatori?
«Elvira è un testo che parla di interiorità, di spiritualità, del confronto tra il profondo di un attore e il profondo del personaggio. Ho avuto l'impressione che il pubblico avvertisse il sollievo di trovarsi di fronte a una proposta che non avesse a che fare con il concetto di mercato, né dovesse rispondere a domande utilitaristiche come: funziona?, a che serve?».

In altre parole, in ballo è la funzione stessa dell'arte.
«La ricerca che compiono i nostri personaggi ha una tale affascinante gratuità, è così legata al desiderio di fare un viaggio nell'interiorità, dove non c'è un risultato immediato da perseguire o un prodotto da lanciare sul mercato, che il pubblico non può non esserne preso. Oggi la partita si gioca sul concetto di funzionalità, noi invece mettiamo in scena un processo di ricerca, lavoriamo intorno a un avvento: quello del personaggio. È come se il palcoscenico fosse un grande ventre da cui gli spettatori vedono nascere il testo».

Si aspettava una partecipazione così numerosa ed entusiastica?
«Con un pizzico di orgoglio ho salutato il pubblico milanese dopo ottanta recite, un record assoluto che ci avvicina a numeri da musical europei e che conferma il valore del nostro sforzo e del Piccolo che ha saputo accoglierlo. Allo stesso modo, a Napoli abbiamo fatto il tutto esaurito al Bellini per un mese, e ora torniamo con grande fiducia nel pubblico partenopeo, nel suo desiderio di confrontarsi con un'esperienza che spinge il teatro ai confini della spiritualità, ma anche dell'esercizio nella pratica quotidiana».
 
Recitare a Parigi all'Athénée, che era il teatro di Jouvet, è stata un'esperienza speciale?
«Ho provato la stessa emozione di quando ho recitato per la prima volta al San Ferdinando, nel teatro di Eduardo. Tutt'e due hanno declinato il mestiere dell'attore con una sofisticazione straordinaria e rinunciato, per l'arte, a tante cose della vita. Entrando nei loro teatri si ha l'impressione di entrare nell'intimo delle loro case d'artista. E questo non può non emozionare. A dicembre 2019 torneremo all'Athénée per girare un film sulla messinscena di Elvira con la regia di Paolo Sorrentino».

Che aveva già ripreso per il cinema le sue regie eduardiane di «Sabato, domenica e lunedì» e «Le voci di dentro».
«Abbiamo fatto insieme cinque film per il cinema e tre sul teatro, questo la dice lunga sulla nostra relazione amicale e professionale. Sarà una bella avventura filmare una recita di Elvira, come a suo tempo fece Jacquot con Philippe Clevenot».

Poi la vedremo al cinema nei panni di un altro grande teatrante, Eduardo Scarpetta, con la regia di Mario Martone.
«Mi preparo con gioia a un progetto che vede ancora il teatro protagonista. Io e Mario abbiamo sempre intrecciato i linguaggi del cinema e della scena, è un percorso che ci viene naturale e ci accomuna. Quanto agli altri progetti, ho finito le riprese di 5 è il numero perfetto di Igort, ora al montaggio, e a settembre girerò il secondo film di Donato Carrisi, tratto ancora una volta da un suo thriller, L'uomo del labirinto».

Torniamo ad «Elvira»: una delle parole che lei usa più spesso per spiegarne il senso è sentimento.
«Nel testo il sentimento viene declinato in tutti i suoi significati. È una forma di intelligenza sensoriale che lascia il segno. Il teatro ti viene a snidare, può guardarti negli occhi quando è grande e invitarti a guardare dentro di te con una forza capace di ricapitolare la tua intera esistenza».

Che cosa legge in questo periodo?
«Un grande libro autobiografico di Klaus Mann, l'autore di Mephisto. S'intitola La svolta e racconta una vita tragica negli anni più bui dell'Europa».

Oggi si parla molto del destino dell'Europa unita.
«L'Europa è assediata dai sovranismi e da Paesi emergenti che non hanno nel loro Dna conquiste fondamentali sui diritti dell'uomo, l'istruzione, lo stato sociale, la sanità pubblica. Se l'Europa dovesse dividersi sarebbero proprio questi valori, questi ideali di civiltà a crollare».

«Elvira» è un apologo sul mestiere dell'attore e sulla missione civile del teatro: la sua lezione più grande è il rigore?
«Jouvet restituisce al mestiere del recitare una nobiltà le cui caratteristiche si vanno perdendo in questi tempi confusi. Ci spiega che al talento è sempre necessaria la disciplina».
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