Lara Sansone e la sua Napoli: «Sul palco a sei anni con Nino Taranto»

Lara Sansone e la sua Napoli: «Sul palco a sei anni con Nino Taranto»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 24 Giugno 2022, 12:00 - Ultimo agg. 18:52
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«La nonna c'è sempre. Da quando, piccola, dietro le quinte, incantata, la guardavo recitare. È stata la mia maestra. Da lei ho imparato come affrontare, nel modo giusto, il variegato mondo dello spettacolo: concretezza, solidità e rigore - ripeteva - poi fai quello che vuoi». La nonna è l'indimenticabile Luisa Conte, attrice napoletana di ineguagliabile talento, fatta mito già da viva. La nipote, invece, è Lara Sansone, che ne ha raccolto la straordinaria eredità.

La sua Napoli.
«Quella della nonna».

Ovvero?
«La città del Sannazaro».

Il teatro ovviamente.
«Certo ma non solo. In realtà penso anche a tutto ciò che gira intorno al teatro, un pezzo di città imprescindibile, fatto di strade, vicoli, locali: ormai è parte di noi».

La creatura di Luisa Conte, il Sannazaro.
«Era il 1969 quando lo strappò al circuito dei cinema a luci rosse.

Recentemente abbiamo celebrato i cinquant'anni dalla nascita con uno spettacolo dedicato solo a lei».

Quale?
«Annella di Portacapuana, lo stesso che la nonna scelse per il suo debutto. Una commedia storica, è nel mio cuore: due volte, ricordo, la portammo in scena insieme».

Torniamo a lei e alla sua carriera napoletana.
«Sono cresciuta a pane e teatro. Il mio percorso - lo dico con orgoglio - era segnato. All'inizio della carriera poi ho avuto la fortuna di lavorare accanto a grandi artisti che - se mai ce ne fosse stato bisogno - hanno contribuito ad aumentare la mia fame di palcoscenico».

Grandi artisti?
«Uno su tutti: Nino Taranto. Mi trovai in scena con lui anche nell'ultimo spettacolo in cui recitò, nel 1985, io ero solo una bambina. Pura magia teatrale. Le sue performance erano stratosferiche, sia nei panni del capraro che del professore di contrabbasso. Aveva il fascino del primattore».

Amico della nonna Luisa?
«Fraterno direi. Qualche volta alle loro cene partecipavo pure io. Mia madre Brigida, a casa Taranto, ci è cresciuta».

Gli attori che parlano il napoletano è vero che sono più richiesti?
«Il nostro dialetto è un patrimonio straordinario per gli artisti».

Lo parla bene?
«L'ho studiato sui libri, leggendo i testi dei nostri grandi autori. Ho faticato ma ora riesco a scriverlo anche niente male. D'altronde Eduardo è stato uno dei primi a coniugare il napoletano con il teatro e la letteratura. E poi Totò, Peppino De Filippo, lo stesso Nino Taranto, considerato forse l'attore più legato al linguaggio di origine, benché recitasse egregiamente anche in italiano».

Torniamo alla sua Napoli.
«Penso a Riva Fiorita dove sono nata, a due passi dal mare e dall'ormai noto palazzo Palladini».

La residenza di Un posto al sole?
«È qualche anno che ne faccio parte anche io. Nella fiction sono Bice, vulcanica sorella di un vigile urbano».

Dal teatro alla televisione.
«Perché no? Passo agevolmente dalla soap al Cafè chantant».

Un genere che ha fatto epoca.
«Mi è sempre piaciuto ricordare i fasti di una tradizione teatrale che a Napoli arrivò come novità francese alla fine dell'Ottocento, quando la moda di questo nuovo genere dilagò, con le sue sciantose e le sue macchiette».

Così ha pensato di riproporlo.
«Mi venne in mente, il Cafè chantant, negli anni '90: pensai alle grandi città europee caratterizzate da spettacoli di riferimento consolidati nel tempo».

Quali spettacoli?
«Tanto per fare qualche esempio: dal fado che si balla a Lisbona, al can can di Parigi o al flamenco a Madrid. La mia idea era quella di creare un format che potesse andare avanti per anni. Credo di esserci riuscita, almeno a giudicare dal pubblico che continua a affollare il teatro quando c'è il Café chantant».

Lo spettacolo è divertente.
«Piace molto anche ai turisti, non solo ai napoletani. In quell'occasione il Sannazaro lo trasformiamo».

Come?
«Le poltroncine lasciano spazio a sedie e tavolini stile belle époque. Ma il bello è che c'è un'interazione totale con il pubblico, che entra nello show, canta e balla assieme a noi. E poi, sempre in tema di tradizioni, non posso non ricordare la mitica Festa di Montevergine».

L'opera di Raffaele Viviani?
«Un capolavoro, un rito tra sacro e profano. La riproporremo il prossimo anno».

Sempre al Sannazaro?
«Certo. Anche in questo caso spazi rivoluzionati con lunghi tavoli di legno, fiaschi di vino e taralli serviti durante l'intervallo, a creare quel clima di festa collettiva in sintonia con lo spettacolo. Dicono che la nostra è una gioiosa macchina da teatro».

E la lirica? Incursioni anche in quel campo.
«A Liegi, in Belgio, ho diretto due opere: Suor Angelica di Puccini e Mese Mariano di Giordano. Devo ammettere che mai avrei pensato di trasformarmi in regista lirica».

Invece è andata proprio così.
«In effetti la musica ce l'ho nel Dna. Mio nonno era cantante. In famiglia il pianoforte si studiava da bambini come arricchimento personale».

Sì, ma l'opera?
«Fin da ragazzina ho sempre frequentato non solo il San Carlo, amavo immergermi in quel mondo. E quindi la Scala, l'Opera di Parigi, la Fenice. A Londra ho visto tantissimi musical. Ecco. Ho visto tutto e in tutte le sue forme e declinazioni. Questo fa bagaglio, fa esperienza, arricchisce. Si mette in un cassetto e lo si ritrova quando meno te lo aspetti. E poi nella vita mai dire mai». 

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