Se la mancanza di programmazione condanna gli atenei del Sud

di Adolfo Scotto di Luzio
Mercoledì 10 Luglio 2019, 08:00
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Le classifiche universitarie si fanno per orientare gli studenti e le loro famiglie nella scelta dell'ateneo e non per stabilire il valore dell'università. E quando gli studenti (e le loro famiglie) scelgono di solito non scelgono l'ateneo migliore ma quello che promette un ritorno maggiore al loro investimento. Se non si tiene conto di questi due criteri ogni discussione sulla cosiddetta valutazione della qualità diventa semplicemente falsa. Che cosa chiede lo studente oggi? Essenzialmente una cosa: vuole essere preso per mano dal momento in cui varca la soglia dell'università fino al giorno della laurea, e se possibile anche dopo. A questo servono l'orientamento in uscita, il placement e tutti quei servizi concepiti con l'obiettivo specifico di accompagnare, è proprio il caso di dirlo, i giovani nella transizione dallo studio al lavoro. Se poi, il suddetto studente trova biblioteche, aule informatiche e sale studio è ancora più contento. 

Ora, le università meridionali e quelle campane in particolare assomigliano poco a questo modello. Almeno così viene fuori dalla classifica Censis delle Università italiane, edizione 2019/2020. Molte sono le ragioni di questo scollamento. Alcune di queste hanno a che fare sicuramente con la permanenza nel corpo professorale di un'ideologia di ceto poco incline a pensarsi in termini di servizio e di soddisfazione del cliente. Altre, richiamate anche nelle obiezioni che i rettori hanno mosso all'analisi, hanno a che fare con il cosiddetto contesto. Se tra i criteri di valutazione c'è l'occupabilità, è chiaro che le università del Sud partano svantaggiate. Se si parla di diritto allo studio e di borse erogate, allora bisogna chiedere alla Regione. E così via. 

Ci sono due obiezioni che si possono muovere a questo modo di stare sulla difensiva. Il primo, riguarda l'emigrazione universitaria. Gli studenti meridionali non vanno solo alla Luiss, alla Cattolica di Milano, al Politecnico o alla Bocconi. Si ritrovano negli atenei medi e piccoli del Nord, privi in apparenza di particolari attrattive se non la loro migliore organizzazione.

Il problema è particolarmente rilevante se si pensa al fatto che la ripresa delle immatricolazioni universitarie, dopo il crollo cominciato nel 2006 e proseguito fino all'annus horribilis del 2012-2013, è un fenomeno quasi esclusivamente settentrionale. Il centro e il Sud hanno segno negativo. Un aspetto interessante dell'analisi del Censis, al di là della discutibile classificazione universitaria, è proprio la disomogeneità geografica della distribuzione degli immatricolati, concentrati nel Nord Ovest, ma soprattutto nell'Italia nord orientale. 

Nell'ultimo anno, si legge nel rapporto, più del 23 per cento degli studenti meridionali è andato a studiare in una regione diversa da quella di residenza. Un quarto della popolazione studentesca universitaria. Ora non sono andati tutti nelle università del Nord, d'accordo. Ma questo dato pure qualcosa indica se si pensa che la cifra corrispondente per l'Italia settentrionale è di poco superiore all'otto per cento (il 10 per l' Italia centrale). Dietro questa migrazione c'è senz'altro un elemento di ricchezza della società meridionale, delle sue energie e delle sue risorse intellettuali, della sua capacità espansiva. Sono giovani dinamici, motivati, ambiziosi. Le scuole, gli uffici, le banche, gli ospedali, gli studi professionali di una grande città come Milano sono pieni di questi ragazzi che lavorano sodo e guadagnano, danno vivacità e tono al famigerato Nord. 

Dunque, ben venga questo grande movimento. Ma cosa resta al Sud? E l'Università, le sue dirigenze, i professori, possono semplicemente invocare il divario economico, la diseguaglianza e il destino avverso? C'è una strategia per trattenere o per attrarre gli studenti, un piano per contrastare la loro partenza? E qui veniamo alla seconda obiezione. Perché si può fare. Proprio la Federico II è la protagonista di un vasto intervento di rigenerazione urbana nell'area Est di Napoli, a San Giovanni a Teduccio, nella forma di un campus moderno e funzionale che mette a disposizione degli studenti spazi, servizi, tecnologie. E allora, se questo accade, non tutto evidentemente è attribuibile alle condizioni ambientali. È, se mai, una questione di progettazione e di quella fantomatica capacità di fare sistema tra istituzioni cittadine e regionali che rappresenta oggi la grande questione al centro della crisi napoletana. L'università è il cuore di questa strategia. Non solo perché la riforma degli studi ha rappresentato il modo con il quale la città si è iscritta nel movimento politico della costruzione dello Stato nazionale fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Non solo perché l'università è il terreno sul quale i diritti acquisiti soppiantano i diritti ascritti, facendo della cosiddetta mobilità sociale qualcosa di più di un semplice meccanismo di regolazione dei rapporti tra le classi, ma l'essenza stessa di una società moderna e liberale. Non per tutto questo, che è già abbastanza. Ma perché l'università è una vasta concentrazione di risorse intellettuali e mai come oggi una città come Napoli ha bisogno di un principio chiaro e lungimirante di direzione e questo da chi deve venire se non dai suoi atenei?
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