La resistenza di Bellavista nella Napoli più aggressiva

di Ernesto Mazzetti
Domenica 16 Settembre 2018, 08:30
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Da molti anni non incontro Luciano De Crescenzo, ma per quel che ricordo di lui credo che accolga con un misto di appagata vanità e ironica svagatezza gli articoli dedicati al suo novantesimo compleanno. Non senza gli scongiuri di rito per propiziarsene altri, di compleanni. E tanti ancora gliene auguro.

Luciano è figura poliedrica di scrittore, divulgatore di filosofia, regista, attore. Un'indiscussa celebrità, che divenne di respiro perfino internazionale da una data precisa, il 1977, quando diede vita al personaggio del professor Bellavista. Dell'autore e del personaggio potrebbe dirsi, «si licet parva», ciò che Gustave Flaubert affermava della figura femminile che gli aveva assicurato fama imperitura: «madame Bovary c'est moi!». De Crescenzo è Bellavista! E in Bellavista riversò ogni parola, pensiero, immagine che componevano la sua visione della città in cui era nato e cresciuto. Di questa sua visione si fece narratore; e di Bellavista fece il campione d'una napoletanità amabile. Nelle figure umane, nei palazzi, nelle strade.

Ben comprensibile che il suo novantesimo compleanno, cui corrisponde un quarantennio di esistenza del professor Bellavista, abbia offerto l'occasione d'interrogarsi su una questione di non trascurabile rilievo per Napoli e i napoletani. Ovvero se esiste ancora la città di Bellavista. Se sia mai esistita. Se potrebbe ancora esistere. Già nel titolo, «Così parlò Bellavista» De Crescenzo ammiccava all'«Also sprach Zarathustra» e alla teoria nietzschiana del superuomo: avvisaglia di quel che sarebbe divenuto il suo divagare nella storia della filosofia.

Ma nel suo Bellavista non vedeva un superuomo. Tutt'altro. Solo un diffusore di bonomia e sapienza umana. In una città che riteneva permeabile all'amore e alla tolleranza.

Bellavista fu accolto con distaccata sufficienza dagli ambienti letterari. E scrollarono le spalle i filosofi accademici quando con parole semplici si diede a spiegare ostiche teorie. Non così il pubblico, che gli ha riservato duraturo apprezzamento. Calcolo ad occhio che i numerosi libri di Luciano abbiano insieme venduto più copie della somma di tutte le opere degli scrittori napoletani della seconda metà del Novecento. Credo che solo l'avvento di Gomorra, soprattutto grazie alle trasposizioni televisive, abbia generato pari fenomeno librario. Cosa che costituisce una prima, rilevante e rattristante ipotesi di risposta al principale tra i quesiti di cui sopra: se cioè esiste ancora la città di Bellavista.

In realtà la Napoli dei tempi in cui si svolgeva la gestazione di Bellavista già si differenziava dall'immagine che il nuovo nato ne avrebbe diffuso. Dagli anni 50 ne offrivano panorami umani ben diversi Compagnone e Rea. In scenari urbani ed esistenziali di tormentata complessità si erano mossi Bernari, Incoronato, Ortese, Prisco, La Capria. E, seppur Luciano se ne dichiara ispirato, anche della Napoli di Marotta pochi tratti si ritrovano nell'affabulazione di Bellavista. Dal 1992 una svolta netta: con Giorgio Bocca si principiò a collocare Napoli nell'Inferno d'un profondo Sud.

Negli scritti che negli ultimi giorni hanno cercato di individuare quel che è vivo e quel ch'è morto nella filosofia di Bellavista, non mi pare sia stato approfondito un particolare che ritengo importante. E cioè quali fossero i confini topografici della Napoli vissuta da Bellavista; quale l'area urbana e lo scenario antropologico dove egli profondeva la sua filosofia sapienziale. È la Napoli del Vomero e di Chiaia, Posillipo, San Ferdinando; tutti rioni ove appariva ancora diffusa con sufficiente armonia la convivenza fra ceti, professioni, mestieri. Una Napoli medio-piccolo borghese; meno mondana e abbiente ma certo meno soffocante della Napoli che feriva a morte i personaggi di La Capria. Popolare e non plebea. Ma certamente non la Napoli metropolitana dove le periferie si saldano ai comuni confinanti in un informe e degradato tessuto edilizio e da dove i pendolarismi verso il centro diverranno sempre più intensi. In un interscambio di tensioni, disagi, violenze. 

Quando nasceva Bellavista non c'era stato ancora il terremoto, che dall'80 si rivelò un acceleratore di crisi sociale, catalizzatore di disordine urbanistico, commistioni tra politica, economia e camorra. Fenomeni tutti che hanno precipitato Bellavista e la città da lui narrata in un passato che oggi può apparirci preistoria. Però almeno un dato ritengo vada posto in evidenza, a conforto di quanti, a dispetto di molte delusioni, tuttora anelano a una Napoli migliore e a napoletani più civili. Il dato è che Bellavista uomo o donna - esiste, intendendo come tale un napoletano perbene, povero o benestante che sia: signore e non incolto, garbato e di buoni sentimenti. Un napoletano che sempre è esistito. Luciano lo riportò sotto i riflettori. Ce l'ha lasciato come esempio. Sono convinto che di Bellavista ne restino ancora, pur se offuscati in un panorama umano e metropolitano aggressivo. Ma spero sappiano sopravvivere.
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