Se a Napoli si spengono le luci sui baluardi di cultura

di Federico Vacalebre
Giovedì 2 Maggio 2019, 08:00
2 Minuti di Lettura
Quando è il momento delle passerelle politiche si dice che quei teatri nei quartieri difficili sono «baluardi di cultura», «trincee di civiltà», «bandiere della battaglia che dobbiamo vincere». Poi, però, si spengono le luci e quei teatri restano avamposti della città abbandonata. Il San Ferdinando come il Trianon, la sala che fu di Eduardo De Filippo come quella che Nino D'Angelo ha provato a portare a nuova luce.

Nella città del «Teatro festival» si alza il grido d'allarme dei teatri che forse più dovrebbero starci a cuore, se davvero non parliamo a vanvera, se davvero siamo convinti che la cultura sia uno dei possibili antidoti alla metropoli-Gomorra, se vogliamo approfittare dell'immagine che il boom turistico sta offrendo di noi, tra Caravaggio e Canova, «Lezioni di storia festival» e il «Comicon», pizzaioli-star ma anche matrimoni-trash.

Senza retorica, quei palcoscenici possono essere il cuore pulsante di una rinascita o la ferita che va in suppurazione. Possono contagiare in positivo i quartieri in cui sorgono, o essere schiacciati dalla solitudine istituzionale in cui quei quartieri vivono. Possono essere tessere di un puzzle che usi anche lo spettacolo, arte o intrattenimento che sia, non come snobistico canone per happy few, e nemmeno come arma di distrazione di massa, ma come bene comune, come momento di crescita civica. Ma possono anche essere il volto della nostra sconfitta: nella città palcoscenico cantata da quel Sergio Bruni che per Eduardo, sempre lui, proprio lui, era «'a voce e Napule», l'Sos che arriva dal San Ferdinando e dal Trianon, dal degrado che li circonda, dall'assenza di vere politiche culturali per i quartieri che li ospitano, è un grido lacerante.

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA