Napoli, quando i simboli fallici proteggevano la città

Napoli, quando i simboli fallici proteggevano la città
di Ugo Cundari
Giovedì 6 Agosto 2020, 10:23
3 Minuti di Lettura
Nel pantheon napoletano delle divinità pagane e cristiane, oscene e caste, adulate e offese, tra i primi posti ha svettato per più di un millennio il dio fallico, quello da invocare per ottenere prosperità e fortuna, fertilità e abbondanza. Del culto greco, arrivato qui fin dalla fondazione della città, si sono trovate tracce in tante tradizioni successive: baccanali, culti misterici, le antiche feste di Piedigrotta, i richiami nei cornicielli portafortuna, i riti apparentemente sacri come quelli che prevedono, per le donne sterili desiderose di restare incinte, il consiglio di andare «a vasà o pesce e San Rafèle», nella chiesa di Materdei dedicata al santo.

A tratteggiare una breve storia della divinità più scandalosa, e del suo legame con Napoli e il Meridione, è uscito a primi del Novecento un irriverente libretto del francese Jules Lacour, ora per la prima volta tradotto in italiano come Priapo e il culto degli organi generatori (Stamperia del Valentino, pagine 212, euro 16). Punto di partenza sono i reperti archeologici conservati al Mann, per lo più pompeiani, a dimostrazione di un tempo in cui «il fallo, lungi dall'essere fonte di vergogna, fu un segno venerato, consacrato; esso fu quasi divinizzato; lo si era scelto come emblema della natura, come la principale espressione della natura è la potenza che feconda e la sua forza riproduttrice».

L'autore fa luce anche sul senso di certi scongiuri tipicamente napoletani, e su certe scene presenti in Lo cunto de li cunti del Basile. Secondo Lacour, nell'antica Neapoli i membri sessuali erano onorati come simboli religiosi per la loro capacità di generare, e per questo erano considerati e rappresentati con rispetto e onore, senza falsa pudicizia. «La loro esposizione ai pubblici sguardi non procurava scandalo né offendeva costumi o convenienze. Gli oggetti che li rappresentavano erano, del pari, religiosamente invocati nei più solenni giuramenti. Giurare portandovi la mano, era una pratica altrettanto santa che giurare poggiando la mano sull'altare. Serviva a dare la massima garanzia sull'inviolabilità di una promessa».

Il dio Priapo era raffigurato nelle case dei più ricchi nobili partenopei, e quanto più il suo organo era ostentato e dalle misure abnormi, tanto più la famiglia era contenta, sicura di accaparrarsi il favore della divinità e ottenere una vita sempre più ricca e florida. I napoletani erano convinti, come avevano appreso dai loro antichi avi greci, che «più le scene nelle quali lo rappresentavano, in pittura e in scultura, erano vive, quanto più offrivano raffinatezza ed eccessi di dissolutezza, più la divinità ne sarebbe stata lusingata e maggiormente avrebbe prestato la propria attenzione, si sarebbe determinata la sua benevolenza e la si sarebbe resa disponibile agli auspici dei mortali. Le più spinte indecenze erano solo prova della più fervente devozione».

Ancora ai primi del Settecento, a Napoli e in alcune altre città francesi, si potevano vedere numerose chiese «il cui portico era sormontato dall'immagine di Priapo; ma esse sono state distrutte sotto la Rivoluzione, avendovi il popolo visto un segno della depravazione del clero».
© RIPRODUZIONE RISERVATA