Paolo Giulierini, parlo di me: «Da ragazzino leggevo Spider-Man, poi iniziai a studiare gli etruschi»

Paolo Giulierini, parlo di me: «Da ragazzino leggevo Spider-Man, poi iniziai a studiare gli etruschi»
di Angelo Carotenuto
Sabato 1 Ottobre 2022, 15:00 - Ultimo agg. 2 Ottobre, 09:01
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È da una finestra che si deve partire, la finestra dell'ufficio del direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Mann. Paolo Giulierini la tiene aperta. Così, al silenzio che riempie le stanze della collezione Farnese - dove Ingrid Bergman passeggiava nel Viaggio in Italia di Rossellini - si associa questo impasto di clacson che svuota le strade e s'arrampica, irrompe, si mescola. Se c'è un segno del suo lavoro, è questo. Una città che ha sfondato una barriera. Giulierini è qui dal 2015, va in scadenza tra un anno esatto. Sotto lo stesso tetto che ospita i capolavori di Villa dei Papiri, ha portato i fumetti, il calcio Napoli, le fotografie del terremoto. C'è ancora tempo per tre mostre attese: i Bizantini (a dicembre), poi Alessandro Magno e Picasso nel 2023. «Quando sono arrivato, il museo si trincerava. Un posto sordo e disunito che teneva fuori una città versatile, vulcanica. Gli oggetti sono portali di accesso a dei mondi, non una esibizione estetica. Era impossibile che non si potesse dialogare. Una cosa andava fatta subito. Aprire». 

 

Cosa resta della parola museo in questa promiscuità?
«L'etimologia di luogo sacro alle muse. Di tutte le arti, non solo del canone. La musica, il cinema, la fotografia. Ho combattuto una lotta strenua per mitigare i cliché, l'idea classica di un posto polveroso, distante, accademico, per trasformarlo in una piazza, un luogo di incontro e di confronto».

Dove ha coltivato queste passioni così diverse?
«Quando ero direttore responsabile dei servizi culturali scolastici, mi sono dovuto confrontare con altri contesti.

Non mi è mai parsa una cosa per cui avvilirsi, anzi, è stato un arricchimento. Mi ha permesso di concepire un'idea della cultura trasversale, senza ghetti. Vengo da Lettere classiche, mi sono laureato con una tesi in etruscologia, le relazioni con altre aree non si improvvisano. Ci si rivolge a degli specialisti e si collabora. Lo avevo sperimentato in realtà più piccole. La sfida era farlo a Napoli che è una superpotenza».

Che cosa conosceva di questa superpotenza?
«Se dovessi dire che amavo il suo periodo barocco, mentirei. Ne apprezzavo la cultura degli ultimi cinquant'anni. Intendo Troisi, Pino Daniele, Totò, la città colta e irriverente. Le prime due passeggiate a piedi tra i vicoli mi hanno spiazzato. Ho scoperto una città mediterranea ancora abitata dal suo popolo. Venezia non è così, Firenze neppure. Napoli ha i suoi rituali, alcuni incredibili, per esempio la considerazione di un calciatore morto come un dio. Ho capito che non si poteva raccontare la sua antichità, se non avessi prima raccontato i suoi esiti».

In genere il percorso non è l'opposto?
«Camminare a ritroso è stata una scelta forte. Parlare di identità attraverso il calcio o la cicatrice del terremoto era rischioso. Ma se riunisci la città intorno alla sua identità contemporanea, non è difficile ricostruire quella antica».

Nessuno le ha sconsigliato di venire?
«Quando al concorso uscii dal colloquio con la commissione, mi chiesero se avessi partecipato a selezioni per altre città. Risposi di no, mi candidavo solo per Napoli. Dissero: - Allora la prende, vero? Il tono era di chi si preoccupava che ci ripensassi. Sapevo di venire in un posto complesso e non mi riferisco agli stereotipi soliti. Era complesso questo museo».

C'è qualcosa che Napoli non riesce a far capire di sé all'esterno?
«Non è in grado di far emergere il meglio. Esiste senz'altro un accanimento mediatico, la tentazione di puntare su alcuni temi per conquistarsi una ribalta. Ma devo essere onesto: Napoli ha ancora grosse difficoltà a tollerare le maglie strette di programmazioni, regole, piani strategici. Sono gli elementi che portano credibilità, invece esiste una tendenza a risolvere le cose all'ultimo istante, a cercare un salvatore che arrivi da fuori. Le cose si cambiano dall'interno. Io, questo museo, lo lascerò alla città. È Napoli che dovrà difenderlo».

A lei pare che Napoli sia più propensa a difendere le proprie tradizioni o a innovare?
«Napoli è una sirena. Ha una duplice natura. Ha una propensione alla creatività e un'attitudine a commemorare. Penso all'ambito religioso, alla cucina, alle tradizioni familiari. Qui ogni aspetto ha una sua duplicità che da una parte incanta e dall'altra uccide. Non si può lavorare qui pensando di snaturare tutto questo».

Che libri c'erano in camera sua da ragazzo?
«Una collezione disordinata. Molto Jack London, con Zanna Bianca davanti a tutti, ma anche Edgar Allan Poe. Una certa letteratura di Boston, coltissima, assai simile alla nostra (dice nostra nel senso di napoletana, ndr) e la saga dei Tre Moschettieri. Mai avrei immaginato che era il libro di un collega, sì, che un giorno sarei finito a dirigere il museo come Dumas».

Un suo compagno di infanzia riconoscerebbe in lei il bambino e il ragazzo che era?
«Penso di sì. Intanto ero uno che passava i compiti. Ho preso un 4 perché la professoressa si imbatté in un bigliettino con la mia scrittura. Riconoscerebbero certamente la mia propensione al gioco. Da bambino ero pieno di soldatini. Avevo armate di tutti i periodi e di ogni paese. Giocare alla guerra è un rito di passaggio. Definisce una prima idea di buoni e cattivi. Che poi i buoni fossero gli indiani, lo capisci quando cresci. Il gioco è un viaggio della mente. Se non giochi, sei incapace di astrazioni. Mi riconoscerebbero dalla passione per i fumetti. Amavo Tex Willer, Corto Maltese, gli eroi della Marvel. Stan Lee è stato un rivoluzionario geniale. Ha introdotto nelle sue storie la dimensione privata dell'eroe, le vicende personali accanto ai grandi eventi. Spider-Man incrocia la contestazione alla guerra del Vietnam. È la conferma che con strumenti apparentemente superficiali si può parlare di cose importanti».

Come viene in mente a un ragazzino che legge Spider-Man di mettersi a studiare gli Etruschi?
«Intanto sono nato a Cortona, vengo da lì. Il mondo antico è un altro modo di fantasticare. Nessuno dimostra fino in fondo quel che c'è stato e non si usa mai l'antico come un rifugio. Si prendono degli stimoli e si portano nella contemporaneità, per essere una persona utile. Nel mio caso per offrire un museo democratico e problematico. Gli etruschi sono una metafora del Mediterraneo di oggi. Un popolo che secondo la tradizione, arriva dall'Anatolia dopo una carestia, già porta una simmetria. Parla una lingua diversa, si distingue, eccelle, subisce il giogo di Roma. Qui siamo in un luogo che canta la grandezza dell'impero di Roma, dedicarsi allora al recupero della voce dei vinti era anche un modo per parlare a un pezzo di città che gravita intorno, dico Forcella, la Sanità: fargli sapere che esiste un'istituzione accogliente e inclusiva».

Con la cultura si può fare politica?
«La cultura deve fare politica. Quella delle buone pratiche, quella che fa riferimento all'etimo della polis, quella che si prende cura della propria comunità. Se la politica è questo, allora al museo la facciamo».

Le dispiace lasciare Napoli?
«È stata un'esperienza dura e formidabile. Ci sarebbe ancora tanto da fare. Non mi dispiacerebbe restare, per competere con musei di livello mondiale».

Un'ultima curiosità. La sua Cortona è anche il luogo delle origini di Jovanotti. Un archeologo e un musicista viaggiatore, con un immaginario simile. Incontri?
«Sua sorella vive a Cortona. Lui ogni tanto torna, ci si incrocia, gira sempre in bici. Non ho mai approfittato di questa origine comune. Ma prima di andare via da Napoli, gli chiedo se viene a fare qualcosa». 

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