I segreti di Napoli: nel sottosuolo al rione Sanità spunta una tomba greca

I segreti di Napoli: nel sottosuolo al rione Sanità spunta una tomba greca
di Marco Perillo
Lunedì 16 Novembre 2020, 09:30
5 Minuti di Lettura

C'è un tesoro sconosciuto nel cuore del Rione Sanità. È nascosto sotto le cantine dei palazzi, i garage, gli antichi forni dismessi per taralli e freselle. Basta avere un po' di determinazione e scendere, torcia alla mano, per alcuni metri nel sottosuolo. Ciò che si scopre blocca il fiato; sono tombe antiche. Sì, sepolcri ipogei di epoca ellenistica, disposti in camere, realizzati tra la fine del IV e gli inizi del III e appartenuti alle élite che un tempo governavano Neapolis. Queste meraviglie sono note fin dalla fine del Seicento, quando il canonico Carlo Celano, autore di quel Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli, le rinvenne andando a indagare al di sotto delle dimore nobiliari. La sua sorpresa fu enorme; scavati nel tufo, nel ventre della terra di quel rione un tempo situato fuori dalle mura, almeno undici camere sepolcrali che recavano intonaci e disegni di epoca greca, graffiti e addirittura sculture, come la superba Medusa sita nell'ipogeo del palazzo del barone Di Donato. Poi tutto cadde nella dimenticanza per almeno un paio di secoli, finché negli anni Ottanta, dopo il terremoto, uno dei padri della moderna speleologia napoletana, Clemente Esposito, non riscoprì questi luoghi nel corso delle sue perlustrazioni.

 

Dopodiché è toccato a Carlo Leggieri, patron e anima dell'associazione Celanapoli - non a caso dedicata al Celano - in anni più recenti prendersi cura di questi gioielli dell'archeologia, riuscendo, con non poca fatica, a rendere fruibili l'ipogeo dei Togati e quello dei Melograni in via Santa Maria Antesaecula, la strada che diede i natali a Totò. Oggi Leggieri, dopo tre anni spesi a liberare il sottosuolo dai detriti e dai rifiuti accumulati, è riuscito a restituire alla godibilità pubblica il complesso di vico Traetta, appena alle spalle di quello dei Togati. Un luogo in cui avrebbe riposato per l'eternità, secondo un'iscrizione rinvenuta ai tempi del Celano, una famiglia di Epicurei, fedeli seguaci della filosofia di Epicuro. Un piccolo patrimonio del passato che sarebbe affogato nell'immondizia e nella dimenticanza, se, a proprie spese e con la sua esperienza, Leggieri non lo avesse restituito alla città. Dell'esistenza di questo posto parla dettagliatamente a fine Ottocento Michele Ruggiero, soprintendente ai Monumenti del Regno d'Italia nel suo preziosissimo volume Degli scavi di antichità nelle province di terraferma dell'antico regno di Napoli dal 1743 al 1876. «Il sito è sotto ad una modesta casa in capo al cortissimo vicolo Traetta numero 2, posseduta a quel tempo da un Francesco Mari ed ora venuta in mia proprietà nel febbraio del 1886 ().

A sinistra salendo la prima branca della scalda di essa casa si vede ancora appiedi della muratura qualche avanzo di antica fabbrica reticolata. La presente discesa al sepolcro è in un canto del lato sinistro del cortile, per una scaletta in principio disagiata e scontorta».

Video

Ci si emoziona nel constatare che l'antico palazzo che dà l'accesso all'ipogeo rispecchia ancor oggi la descrizione del Ruggiero; già dall'esterno si notano tracce di epoca romana che appartengono all'acquedotto augusteo del Serino che passa di là e addirittura intercetta le tombe ellenistiche, non prima di aver transitato sotto l'umile basso di una donna anziana, devota all'immagine di San Vincenzo Ferrer posta in un'edicola all'esterno della sua abitazione. Il cortile è di quelli tipici napoletani, sgarrupato, panni stesi e motorini in ogni lato. Aperta una porticina che dà su moderno gabinetto, si scopre che è dà lì che si scende per trovare il tesoro degli Epicurei. Col cuore in gola ci si addentra e si percorre la scalinata di tufo. E nonostante si rimanga a bocca aperta nell'ammirare le colonne d'ingresso all'antico e nobile sepolcro, ci si rende conto che questo, nel Seicento, è stato in parte danneggiato da un'enorme cisterna scavata dai cavamonti. Eppure, facendosi largo su collinette di terriccio scoscese, tutto ciò non scalfisce la meraviglia che si prova scorgendo le camere funerarie a pianta rettangolare con volte a botte, in una delle quali ancora sussistono disegni e scritte in greco. Due candelabri d'argento, il fusto lungo e sottile, che terminano con un piattello su cui è poggiata una lucerna bilicne d'oro, con due fiammelle accese che sembrano essere state dipinte ieri. Al fusto del candelabro è sospesa, tramite due ganci, una patera su piede, a due anse con attacco cuoriforme. Sul fondo bianco della parete, tra i candelabri, ecco spuntare tre corone bicrome, con piccole bende pendenti al centro, sospese a chiodi, di cui è addirittura l'ombra riportata. Altro che Giotto e la prospettiva. Le sorprese non sono finite qui, accedendo all'ambiente adiacente e scorgendo ben otto sarcofagi addossati alle pareti, insieme con l'antica scala d'accesso all'ipogeo. Qui il buio e il silenzio la fanno da padroni, pregni delle energie ctonie della terra. Ne siamo consapevoli; per trovare luoghi simili occorrerebbe andare in Macedonia, oppure in Turchia. È bello pensare che un giorno tutti questi complessi tombali da far invidia al mondo possano essere accessibili e visitabili a tutti, magari con un sistema integrato, con le dovute attenzioni dello Stato. Invece siamo a Napoli, siamo in Italia e da decenni nulla si muove in tal senso. Il rischio è che tutto debba dipendere dall'esclusiva passione di un coraggioso Indiana Jones come Leggieri, ormai sessantenne. E che dopo di lui tutte queste straordinarietà spariscono in quel buio e in quel silenzio che abbiamo ascoltato tra i fantasmi del passato. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA