Pompei, il mistero della seconda biga: «È in oro e argento»

Pompei, il mistero della seconda biga: «È in oro e argento»
di Dario Sautto
Sabato 13 Febbraio 2021, 10:30
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Una biga «con pezzi in oro, argento e bronzo, dal valore inestimabile». Fino a poco più di tre anni fa, i tombaroli cercavano un prezioso carro di epoca romana sepolto ancora sotto cenere e lapilli, perfettamente conservato. Sapevano dove cercarlo, ne erano sicuri, tanto da essere pronti a rischiare la vita, scavando a cinque metri di profondità sotto terra, con poco ossigeno a disposizione e con la possibilità di ritrovarsi i carabinieri alle calcagna. Un pezzo pregiato, magari da recuperare e rivendere a collezionisti facoltosi, pronti a fare follie pur di esporre quel reperto archeologico «unico» seppellito nel 79 dopo Cristo dall'eruzione del Vesuvio. Ma l'ennesimo mistero di Pompei aveva già spinto la Procura di Torre Annunziata ad aprire una nuova inchiesta sui tombaroli della villa di Civita Giuliana, che si trova nell'area esterna al parco archeologico pompeiano, dove tuttora sono in corso gli scavi autorizzati, in collaborazione tra uffici inquirenti e Soprintendenza.

L'ultimo particolare viene fuori dalla nuova testimonianza ascoltata ieri in aula, durante il processo ai presunti tombaroli Giuseppe e Raffaele Izzo, in corso dinanzi al giudice Silvia Paladino.

Dopo l'archeologo Domenico Camardo e l'architetto della Soprintendenza Raffaele Martinelli, è toccato a Francesco Fattoruso, carabiniere che fino al 2017 era in servizio alla stazione di Pompei. Se nel 2003 il collaboratore di giustizia Saverio Tammaro aveva raccontato come il clan Cesarano si fosse appropriato di una biga di epoca romana ritrovata «in un frutteto di via Civita Giuliana», i carabinieri già nel 2014 avevano raccolto le prime informazioni su un secondo carro sepolto, grazie alle rivelazione di un ex ricettatore di reperti archeologici, identificato in Luigi Giordano, con precedenti specifici. Aveva raccontato dei suoi rapporti con gli Izzo, anche di una causa in corso tra loro, della vendita di alcuni reperti e delle ricerche di quella biga. Il primo blitz nel 2014 servì a verificare che i sigilli apposti nel 2009 all'accesso dei cunicoli scavati sotto la casa degli Izzo erano stati violati.

Nell'estate 2017, poi, una seconda «soffiata» ai carabinieri di Pompei spinse il procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli ad avviare nuovamente le indagini. Stavolta c'era addirittura l'indicazione precisa del luogo in cui poteva trovarsi quel carro prezioso. «A circa 25-30 metri dalla strada, sotto ad alcuni alberi di arance e mandarini». In corrispondenza di quell'agrumeto, gli scavi archeologici hanno permesso di ritrovare la parte rustica della gigantesca domus e l'ormai famoso cavallo bardato, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Altri calchi di cavalli sono stati danneggiati dai cunicoli scavati dai tombaroli e sono stati ritrovati successivamente. Una parte di quella che era la scuderia di una delle ville suburbane più lussuose è ancora oggetto di scavo e, chissà, potrebbe restituire davvero un carro militare o una biga, un vero e proprio tesoro per gli archeologi.

 

Al momento, l'esistenza dei carri quello requisito dal clan Cesarano e quello che i tombaroli cercavano fino al 2017 resta avvolta nel mistero. Forse a scoraggiare i tombaroli nelle ricerche fu la presenza di uno scarico fecale che spuntò durante gli scavi clandestini. Un impedimento grave, visto che «la sua presenza sprigiona gas e riduce la presenza di ossigeno» come ha spiegato ieri l'architetto Martinelli rispondendo alle domande dell'avvocato Francesco Matrone, difensore degli Izzo. I tombaroli, poi, avevano scavato un altro cunicolo per raggiungere la scuderia. «Per sicurezza ha illustrato l'archeologo Camardo seguivano i muri romani per scavare i cunicoli ed evitare crolli. Hanno usato tecniche da esperti restauratori anche nel taglio degli affreschi trafugati».
Il procuratore aggiunto Filippelli ha poi prodotto al giudice un documento a firma del soprintendente Massimo Osanna, che ha stimato i danni di quegli scavi clandestini in almeno 1,8 milioni di euro. Rispondendo alle accuse, l'avvocato Matrone ha spiegato che per gli scavi ancora in corso «alla famiglia Izzo va riconosciuta una indennità mai versata». 

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