Teatro San Ferdinando, il buon esempio di un recupero all'americana

di Francesco Durante
Sabato 27 Aprile 2019, 08:00
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Può un teatro contribuire alla rinascita di un quartiere, o addirittura determinarla? La risposta è: sì. È accaduto in tante parti del mondo, e non si vede per quale motivo non dovrebbe poter accadere anche a Napoli, dove in questi giorni si discute di quel che si dovrebbe fare per difendere il San Ferdinando, mettendolo al riparo dalle vergognose incursioni dei vandali che imperversano in quella parte complicata di una città già fin troppo difficile, e consentirgli di essere «linfa vitale per quel territorio», come ha scritto ieri il presidente dello Stabile di Napoli, Filippo Patroni Griffi.

Può essere di qualche utilità ricordare che il San Ferdinando ha una storia recente simile, anche nella tempistica, a quella di una ben più grande sala di New York, il King's Theatre di Flatbush, a Brooklyn. Edificato nel 1929, era uno dei cinque «Loew Wonder Theaters» consacrati nella metropoli al trionfo dell'arte cinematografica, e come gli altri era maestoso (oltre 3500 posti) e sontuoso (lo scintillio dei marmi rosa, le colonne di legno di noce, una volta decorata alta più di 21 metri). Poi, dopo l'ultima proiezione dell'agosto 1977 (per la cronaca: il film «Bruce Lee, l'uomo e il mito»!), fu chiuso.

E rapidamente naufragò, come del resto tutto il quartiere di Flatbush, in un completo abbandono e degrado: senza manutenzione, devastato dalle infiltrazioni d'acqua e da reiterati e micidiali furti e vandalismi. Sei anni dopo, quel rottame entrò nel patrimonio del Comune di New York a compensazione di un grosso debito fiscale, ma questo non impedì che il degrado, appena tamponato da qualche sommario intervento, proseguisse implacabile per altri trent'anni. Fino a quando non arrivò un piano di recupero elaborato dalle autorità cittadine, e si fecero avanti importanti investitori, innescando un'alleanza virtuosa tra pubblico (proprietà) e privato (gestione). Prevedendo la rinascita, il Comune si attrezzò per tempo: su Flatbush Avenue venne potenziata l'illuminazione, furono create aree di parcheggio e venne adottato un nuovo dispositivo per la viabilità. Grandi marchi (come Nike e Gap) fiutarono l'affare e aprirono i loro megastore nei paraggi, decidendo di destinare una parte dei futuri incassi a ulteriori migliorie nel quartiere. Infine, il 3 febbraio 2015, il King's Theatre riaprì con un concerto della superstar Diana Ross. Da allora funziona a meraviglia: vi si tengono spettacoli che soltanto lì si possono vedere, e tutta la zona beneficia del continuo afflusso di gente in arrivo dall'intera area metropolitana di New York. Ecco dunque come un teatro - cioè il luogo per eccellenza del confronto, della comunicazione e della consapevolezza di una comunità - può essere la leva della rinascita di un quartiere. Bisogna, in breve, che ciascuno faccia la sua parte, e operare affinché quel palcoscenico - con la sua storia, il suo passato, il suo prestigio recuperato - venga gradualmente ri-conosciuto come un bene civico. I teatri, insomma, non basta riaprirli: prima di farlo, bisogna ragionare su tutto quello che vi sta intorno, avere una visione più ampia, e fare tutto quanto occorre affinché il bene restaurato non rimanga (torno a citare Patroni Griffi) «un fiore nel deserto». Per quanto possa sembrare un paradosso, a Napoli il restauro e la riapertura costituiscono sempre la parte più «facile» di ogni operazione del genere. La parte veramente difficile viene dopo, ed è quella della manutenzione, della vigilanza, dell'attenzione che non deve essere episodica bensì costante, ma che invece, proprio nella città dove si fa tutto questo straparlare di beni comuni, appare del tutto insufficiente.
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