Un anno senza Giuseppe Galasso: quelle lezioni della Storia tra Croce, Napoli e l'Europa

Un anno senza Giuseppe Galasso: quelle lezioni della Storia tra Croce, Napoli e l'Europa
di Luigi Mascilli Migliorini
Mercoledì 30 Gennaio 2019, 11:00 - Ultimo agg. 11:32
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Tra pochi giorni sarà un anno che Giuseppe Galasso ci ha lasciati. Il 12 febbraio, il giorno della sua morte, la Società napoletana di Storia patria, una delle istituzioni, o meglio uno dei luoghi ai quali egli era più fortemente legato, assegnerà per la prima volta un premio nel suo nome all'opera di uno storico che rappresenti autorevolmente non solo e non tanto l'eredità specifica del suo insegnamento, ma la forza viva della suo lascito più significativo: l'intatto valore della storia come sapere fondante della moralità umana.

Intanto, in libreria si affollano nuovi libri che portano il suo nome. Nuovi, non riedizioni di cose già scritte e pubblicate da tempo. Scritti maturati negli ultimi mesi della sua vita, interrotta, come tanti hanno ricordato, nel pieno adempimento del compito di una scrittura quotidiana mai dismessa se non di fronte ad un avversario, l'unico, invincibile. Scrittura di capitoli, parti di opere di grande impegno, scrittura di articoli che per essere destinati a quotidiani non per questo si arrendevano alla misura di un consumo giornaliero, riflessioni, bilanci come accade per tutti e tre quelli appena usciti - di problemi a lungo pensati o di problemi nuovi, offerti alla sua attenzione da quella realtà vivente, così continuamente mutevole, che egli non smetteva di amare.
 
Il primo, Il Regno di Napoli (Neri Pozza editore), è una lunga intervista, meglio una lunga conversazione, con Francesco Durante e una «Postilla», garbato understatement, di Vittoria Fiorelli. Per Galasso è l'occasione per tornare sul tema a lui carissimo dell'unità della storia meridionale, così come aveva estesamente raccontato nei sei volumi della Storia del Regno di Napoli e aveva voluto racchiudere in un'altra intervista, quella sulla Storia di Napoli, apparsa nel 1977 e ripubblicata in questi ultimi mesi dall'editore Laterza. Unità dello svolgimento storico e della coscienza che ad esso si accompagna, non vuole assolutamente dire che la storia del regno di Napoli abbia sempre avuto un unico, monocromo filo conduttore. Le dinastie diverse che ne hanno assunto il governo non devono considerarsi, secondo una stereotipa tradizione, invasori stranieri di una intatta comunità originaria. Al contrario, è con esse e attraverso di esse che si è costruita la storia del Mezzogiorno. E come, per un verso, tutte a Napoli, dalle lunghe permanenze degli Angiò, degli Spagnoli, dei Borbone, fino a quelle tanto più effimere dei «re francesi», Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, hanno avvertito la forza vitale e la responsabilità che a loro, pur venuti da tanto lontano, derivava dall'essere sovrani di queste terre; così è attraverso il caleidoscopio a volte disorientante delle dinastie straniere che il Mezzogiorno ha maturato la sua forma, non l'unica, forse nemmeno la principale, ma certo non la più trascurabile o deprecabile, di rapporto con il resto dell'Italia e soprattutto con l'Europa. Sicché anche l'ultimo e più controverso incontro, quello con la monarchia nazionale dei Savoia, non può essere accolto spiega con energia Galasso a fronte delle improprie nostalgie di questi ultimi tempi - come semplice oppressione, ma come esperienza viva, a cui i meridionali contribuirono con convinzione, e che ha sottratto il Mezzogiorno ad un destino periferico, per esso storicamente inabituale.

Riecheggia in questi giudizi qualcosa del suo amato Croce. Ed è proprio da alcuni passi della sua Storia del Regno di Napoli che Galasso parte nello splendido saggio che occupa la parte principale del secondo di questi libri freschi di stampa. Studi storici e vita civile (Il Mulino) è anche il titolo della conferenza che egli tenne a Palazzo Filomarino il 13 ottobre 2017 per l'inaugurazione dell'Associazione degli ex allievi dell'Istituto italiano per gli studi storici. Raramente come in quella occasione, dove l'autorevole maestro di storia si incontrava con giovani (e meno giovani) apprendisti di quel suo stesso mestiere, Galasso seppe mostrare che cosa era stato per lui il rapporto con Croce. Non filologica devozione di discepolo, ma vivente dialogo tra due grandi figure del 900 europeo. A quei giovani, a tutti, spiegò ciò che egli aveva appreso e poi, praticandolo, fatto cosa sua, eguale e diversa sia quando era eguale sia quando era diversa - da quella che aveva ricevuto, per così dire, in eredità. Ricordando non il Croce filosofo e neppure quello storico, ma l'uomo che quasi sul finire della sua vita aveva voluto fondare un Istituto che aiutasse la formazione e la crescita dei nuovi storici, ricostruendo l'organizzarsi minuzioso del programma che Croce aveva disegnato per quella sua creatura, Galasso vi ritrovava, e la offriva ai presenti in quella mattina di ottobre, il senso più profondo della storia e del lavoro storico: l'incessante rapporto con la vita, con l'agire pratico nella vita privata e pubblica perché essa migliori noi e con noi il mondo. La storia, insomma, come morale. E ripeteva con Croce: «Chiudere la comunicazione tra teoria e pratica vale assiderare e far morire storia e poesia, togliendo ad esse l'afflusso e il calore del sentimento e del travaglio morale, che soli generano l'ispirazione onde fiorisce la poesia e i problemi a cui corrisponde la storia».

Si sforzava, Galasso, ma non vedeva tutto questo oggi, nell'orizzonte di quella che, con il titolo del terzo libro, potremmo chiamare Emarginazione della storia e nuove storie (Rubbettino, oggi la presentazione a Napoli alle 16.30 a Palazzo du Mesnil). Coglieva la crisi dell'Europa, forse ancor più irreparabile di altre prima di questa, di quell'Europa nelle cui drammatiche vicende era stata generata l'idea di storia come forma della moralità umana. Non era convinto che alcune nuove tendenze, come la Global History, la storia globale troppo spesso esercitata come un mettere nell'angolo l'Europa, o peggio mettere sotto processo i suoi valori, avessero la forza - in primo luogo etica - di sostituirsi a quell'immenso patrimonio di visioni del mondo che era stata, che è ancora, la tradizione storica europea. Non disperava, però, ma provava piuttosto a capire. E il suo lungo saggio in questo volume, dedicato alla «crisi della storia come stagione storiografica» è una straordinaria testimonianza della vitalità dello storicismo, capace non solo di intendere storicamente gli altri, ma di intendere storicamente se stesso e, dunque, avvertendo il rischio possibile del proprio esaurirsi, proclama, in questa coscienza, la sua più strepitosa vittoria.

Così, del resto, può dirsi di Galasso, la cui coscienza, mentre pare arrendersi un anno fa alle ragioni di una inevitabile conclusione, riappare in tutte queste pagine viva e vittoriosa, affidando ai suoi lettori, più o meno smarriti, di ritrovare in esse suoni e immagini familiari che solo in apparenza abbiamo perduto per sempre.
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