È stato uno dei primi a capire che a Napoli e nell'area vesuviana, e - più in generale - nella sconfinata realtà metropolitana partenopea, davvero nulla è come sembra. È stato uno dei primi a capire che in questa città «non esiste un pulviscolo, ma un'unica grande organizzazione che, non a caso, viene chiamato sistema». È uno dei meriti che va ricondotto al ruolo e al lavoro di Giancarlo Siani, secondo la testimonianza del procuratore di Napoli Gianni Melillo, nel corso della cerimonia di presentazione del libro Per Giancarlo Siani, che i lettori del Mattino trovano in edicola domani. Prima di affrontare questioni legate al crimine organizzato e alla sua narrazione, il procuratore Melillo svela un particolare della sua vita, della sua storia personale, che si incrocia con la giovane vita del cronista ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985: «Giancarlo era uno dei miei amici napoletani», dice il procuratore ricordando gli anni di studio a Napoli, prima di intraprendere la carriera di magistrato. Ma c'è un merito, che va ascritto al cronista, secondo il procuratore: quello di aver intuito e approfondito il carattere sistemico del crimine organizzato, andando ben oltre lo scenario apparentemente pulviscolare di clan e bande che si fronteggiano per questa o quella piazza di spaccio.
LA NARRAZIONE
Ma un'analisi del fenomeno camorristico, nel 2021, non può prescindere da una considerazione del ruolo che la parola camorra riveste nel dibattito pubblico.
Particolarmente intenso l'intervento del procuratore generale Luigi Riello, che ha ricordato i nomi dei giornalisti uccisi dalle mafie in Italia, accanto a quelli dei magistrati, sottolineando anche la tendenza a svalutare il lavoro di inchiesta giornalistica condotta da alcuni esponenti del mondo istituzionale. Una narrazione che punta a screditare il lavoro serio e scrupoloso, di chi - come Giancarlo - ha raccontato una realtà complessa come il sistema criminale vesuviano, pagando con la vita il prezzo della sua libertà.