Caravaggio più libero nel Seicento che oggi

di Francesco de Core
Giovedì 7 Marzo 2019, 08:00
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Ogni epoca si merita una degna quota di conformisti (quanti, anche oggi, rifugiatisi sotto le mentite spoglie del politicamente corretto), così come ogni epoca ha i suoi spiriti liberi (pochi, quelli realmente tali). Di molto si può discutere, e accapigliarsi, farsi beffe gli uni degli altri, ma non sul fatto, acclarato pur nella esiguità di dati biografici certi, che Michelangelo Merisi appartenga alla seconda schiera. Facendo spesso slittare irrefrenabilmente l'aspetto selvaggio della sua concezione di libertà in territori ambigui, quando non cupi, tetri, sinistri. Irascibile fino a sbocchi di pulsioni violente, il Caravaggio sapeva anche quando e come controllarsi e dar prova di sé come artista eccelso e conteso. Nelle corti, tra i cardinali, negli ambienti ovattati che gli garantirono soldi, fama, protezione. Ma la sua natura lo spingeva a ribaltare le convenzioni, e a mettere faccia, corpo, gesti, oltre l'arte di riferimento e i suoi stilemi. Annotò il pittore e biografo fiammingo Van Mander (non senza un tocco di malizia) che il Merisi non si dedicava mai allo studio con assiduità: «Quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese. Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioco all'altro; sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi, non è troppo comodo accompagnarsi con lui».

Qualcuno direbbe: una rockstar ante litteram. Un personaggio scomodo, turbolento, con picchi repentini di genialità e cadute rovinose. Soprattutto con animo (e mano) da pittore di riguardo, che degli altri pittori non aveva gran conto - e per questo va letto con ironia ciò che ha scritto il Baglione, suo coevo, un (mezzo) Salieri roso dall'invidia e dal successo del Mozart dell'epoca. Artista immenso e non solo per istinto, come qualcuno vorrebbe far credere nella sottovalutazione dell'ancoraggio culturale e religioso - e ancora oggi gli storici discutono delle sue inclinazioni controriformiste e dell'influsso che sulle sue opere ebbe il dettato della chiesa lombarda piuttosto che, in via diretta, quella romana.

Ma Caravaggio non sarebbe diventato Caravaggio senza Napoli. Incontro tragico e casuale, sul finire del 1606: il Merisi vi approdò da omicida e fuggiasco, e terra bruciata fu fatta attorno a lui, con il peso tremendo di una condanna capitale eseguibile da chiunque, e in qualunque momento. Fino, appunto, all'approdo partenopeo. Nella città spagnola, brulicante, caleidoscopica, ricca e plebea, impastata di luce e di tenebre nei quartieri già enormi, nei palazzi addossati l'uno sull'altro (a Roma dovette farsi aprire una finestrella appena sotto il soffitto per recuperare la luce dall'alto, a Napoli bastava camminare nei vicoli per osservarla naturale, quella luce così magistralmente tagliata e poi riprodotta in opera), Caravaggio era nel contempo un uomo fra tanti - nelle bettole, per strada, nelle notti di vino e prostitute - e un artista da imitare. Celebrato. Riverito. Che richiamava committenze e giovani pittori a cui fare scuola senza mai aprire bottega.

Le Sette opere di misericordia, quadro dipinto su richiesta, e notevole esborso di ducati, ben quattrocento, da parte dei giovani cavalieri del Pio Monte - in particolare di Giovan Battista Manso, amico di letterati e pittori d'ogni parte (Tasso, Marino e Milton valgano su tutti) - rappresentano la summa della frenetica attività partenopea del Caravaggio, uomo dilaniato e pittore investito da una grazia che, con il senno di poi, solo Napoli, nel perimetro di quella particolare condizione di vita, poteva donargli.

«Parla Caravaggio in questo quadro, e parla di se stesso. Se ogni opera d'un artista è un frammento della sua autobiografia, questa di Caravaggio è solenne e programmatica: il manifesto d'una redenzione futura», ha spiegato Maurizio Fagiolo dell'Arco in un prezioso, illuminante libretto del 1969 - Le Opere di misericordia. Contributo alla poetica del Caravaggio - pubblicato da Vanni Scheiwiller in una collana di chicche e delizie, All'insegna del pesce d'oro (e va detto che nel Novecento fu Roberto Longhi a sdoganare Caravaggio, altrimenti considerato un buon pittore e nulla più, dal pur grande Berenson tra gli altri, come ci ha ricordato Roberto Cotroneo nel bel libro L'invenzione di Caravaggio). Sedici personaggi in dieci metri quadrati, un unicum. E, dentro, l'allegoria della solidarietà. Della fratellanza. Con variazioni rispetto al dettato evangelico, tra figure abolite ed altre che invece raddoppieranno di senso. Ma di una potenza mai vista. Mai osata - dove persino gli angeli hanno volto di lazzari perché ripresi dalla verità nuda di Forcella, per dirla con Longhi. Soprattutto, di una forza espressiva - quella del basso che si fa alto, dell'umile che diventa sacro - mai esposta prima. Né a Napoli, né altrove. Sì, esposta: a tal punto ammirata, che i cavalieri, gelosi custodi nella chiesa appositamente costruita, ne proibiranno l'alienazione in considerazione della sua perfettione. Appena pochi anno dopo, il 1613 (quattro secoli fa, vale la pena ricordarlo).

Una rappresentazione cruciale, che Napoli amò allora, anche se spesso dimentica di amarla oggi. Era il gesto di un'anima tormentata, di un uomo braccato, di un pittore in cerca di un segno rinnovato. Da quei mesi febbrili, l'esistenza del Merisi sarà punteggiata da fughe e quadri, agguati e quadri, voglia di riscatto e quadri - da Malta alla Sicilia fino al ritorno a Napoli e all'ultimo viaggio, verso l'inattesa morte su una spiaggia toscana. Dipingeva sempre e ovunque, le sue opere dovevano essere il lasciapassare per il presente (voleva rientrare a Roma da uomo riscattato, senza macchia, con la grazia papale) e per l'eternità. Si riprodusse in scene di molte opere, sempre più afflitto, ferito, lacerato, umiliato. Ma non sconfitto. Perché oltre a essere un artista visionario, Caravaggio era un uomo libero. Se non fuori di sé, almeno dentro di sé.

Viaggiò in feluca con alcune tele da farne dono al cardinale Borghese una volta rientrato a Roma, dove però non arrivò mai, in quella maledetta estate del 1610. Viveva per l'arte e l'arte gli serviva per vivere; ne aveva, probabilmente, un concetto sacro e profano. Napoli era, più di ogni altra città, sacra e profana, nel sangue e nelle viscere. È qui che il Merisi ha sciolto la sua percezione del mondo nel clima di un'epoca e nel cuore di una realtà stratificata e complessa. La città lo adottò, si fece volto e carne nelle sue opere immortali.

Caravaggio a Napoli, Caravaggio per Napoli. Purtroppo, non più Napoli per Caravaggio. Almeno oggi. Quando, davanti al muro dei niet di burocrati ministeriali e a dotte levate di scudi che sanno di barricate ideologiche, se non proprio di guerricciole da pollaio ammuffito, restituire l'artista e Le Sette opere alla città - in un contesto diverso, più ampio e ragionato, pur temporalmente limitato come una mostra con un percorso e una interpretazione - viene letto come un tradimento (di una disposizione peraltro già abiurata in cinque circostanze), non come una nuova occasione di (ri)lettura, di recupero, di immissione di canoni estetici intramontabili in un presente liquido, mutevole, stimolante. Tra memoria e futuro. Magrezza (e miseria) del nostro tempo, che Napoli vive con sentimento di rassegnazione più che altrove.

Ai giorni nostri, chissà, il condannato Caravaggio sarebbe stato espulso, o decapitato, dai depositari della Verità, dei Regolamenti e della Legge. Meno male che la Napoli del Seicento era ben diversa. Forse più aperta - se arrivò ad accettare come un suo figlio un condannato a morte. Più libera - se gli garantì, nella possibilità di esprimersi, fama e onori. Persino, e non sembri provocatorio, meno dogmatica. Sapeva aprirsi, non chiudersi. Sapeva dire dei sì, non solo sterili no. Ma allora Napoli era una capitale; oggi, un ologramma su cui esercitarsi in baruffe chiozzotte.
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