Napoli in dissesto, un buco da 5 miliardi che taglia servizi e futuro

Napoli in dissesto, un buco da 5 miliardi che taglia servizi e futuro
di Marco Esposito
Giovedì 20 Maggio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 19:55
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Qual è l’anno zero? Potrebbe essere il 1992, con la dichiarazione di dissesto da parte del Consiglio comunale di Napoli. O il 2001 con la riforma costituzionale federalista. Oppure il 2011, con l’avvio della stagione dei tagli. O ancora il 2015, con la rivoluzione della contabilità comunale. Se non addirittura dal 2020, quando è iniziata la stagione delle sentenze della Corte costituzionale. Di sicuro il Comune viaggia da anni spendendo oltre le proprie possibilità contabili e, nello stesso tempo, offre servizi ai cittadini inferiori al dignitoso. Una situazione di per sé insostenibile e che è alla base delle dichiarazioni amare di Gaetano Manfredi, che dovrebbero essere condivise da chiunque abbia a cuore la città e chi vi risiede.

Prima di entrare nei numeri è il caso di riepilogare le tre epoche attraversate da tutti i Comuni italiani. La prima fase possiamo definirla della Spensieratezza ed è durata fino al 2010: i sindaci ricevevano robusti e stabili trasferimenti statali (a Napoli 648 milioni nel 2001 e ancora 646 milioni nel 2010) e facevano quadrare i bilanci inserendo nella colonna delle spese gli impegni effettivi e in quella delle entrate gli incassi presunti. Sbagliavano? La legge lo consentiva. La seconda stagione, una sorta di Medio Evo, ha visto un caotico sovrapporsi di regole, con continue sforbiciate ai conti (il trasferimento nel 2012 era precipitato a 474 milioni) e l’attuazione con formule perverse del federalismo fiscale. Sono i tempi in cui la politica si rifugiava nella formula del pre-dissesto, una sorta di agonia controllata prima in cinque anni, quindi in dieci, poi in venti. Ma anche anni di fantasia normativa, con l’invenzione nel 2013 del Fondo anticipazioni liquidità (Fal) grazie al quale lo Stato tramite la Cassa depositi e prestiti anticipava agli enti locali che ne facevano richiesta soldi liquidi a fronte di incassi che però non avevano maggiore probabilità di riscossione rispetto ai tempi della Spensieratezza. I Comuni addirittura erano autorizzati per legge a inserire in attivo i proventi del Fal come se avessero davvero riscosso i soldi sperati, mentre in realtà avevano solo sottoscritto un nuovo debito, da restituire con gli interessi. Nel 2015 inizia l’Era Moderna, con il gigantesco riaccertamento delle poste attive e passive dei Comuni (tranne il Fal) e l’emergere in Italia di una somma spaventosa, chiamata dai tecnici «melma», pari a 20 miliardi. Per evitare l’immediato fallimento di migliaia di enti, la legge consentiva di nascondere la melma sotto un tappeto, con l’obbligo di ripagarla un trentesimo alla volta fino al 2044. 

A leggere il bilancio di un singolo anno del Comune di Napoli si è costretti quindi a considerare sia il peso del passato e in particolare del Fondo crediti dubbia esigibilità (Fcde) sia gli oneri scaricati sul futuro. L’ultimo documento ufficiale e con un grado discreto di leggibilità è contenuto nel parere del Collegio dei revisori dei Conti alla proposta di bilancio del 2020-2022, prodotto in data 8 ottobre 2020. È un testo anch’esso da rivedere, per gli effetti della sentenza 80/2021 della Corte costituzionale. La prima curiosità del cittadino è se al netto dei problemi storici (come debito e disavanzo) la gestione corrente sia in attivo. In effetti le entrate correnti di competenza del 2020 ammontano a 1.619 milioni mentre le spese correnti (al netto degli interessi sul debito) si fermano a 1.541 milioni. La risposta quindi è positiva: c’è un equilibrio e anzi un avanzo di 78 milioni. Ma l’equilibrio è apparente, come si vedrà. I macigni sui conti e quindi sulla capacità di erogare servizi da parte del Comune di Napoli sono infatti quattro: debito storico, disavanzo, carenze gestionali e deficit di diritti. Analizziamoli e quantifichiamone l’onere per capire come si passi da un avanzo apparente di 78 milioni a un disavanzo reale dal punto di vista del cittadino di 747 milioni, tra minori servizi ricevuti e oneri scaricati sugli anni a venire.

Quando si parla di «debito» di un ente locale si confondono spesso più voci. Il debito, in senso proprio, è un prestito da restituire, di solito con gli interessi. A fine 2020 il debito del Comune di Napoli ammonta a 1.524 milioni (di cui una quota autoproclamata dal Comune «ingiusta») con un costo per l’anno in corso di 117 milioni. Tra tutti i problemi, in fondo è il minore. Il sistema contabile degli enti locali prevede una serie di accantonamenti a fronte di potenziali perdite e in particolare del mancato incasso di crediti, risalenti anche a oltre dieci anni fa.

Il riaccertamento del 2014 nel 2020 grava ancora per 998 milioni. Pesa anche il disavanzo da Piano di riequilibrio finanziario pluriennale (489 milioni). A questi si sommano altri disavanzi da mancati recuperi negli anni scorsi. Inoltre nel 2020 dopo una prima sentenza della Corte costituzionale si è aggiunto il Fal, per 995 milioni. Insomma, a carico del 2020 il Comune di Napoli aveva su nove voci un disavanzo di 2.613 milioni che pesa sui conti dell’esercizio per 168 milioni. Inoltre con la sentenza 80 del 2021 il Fal va restituito più rapidamente e ciò porterebbe (il condizionale è obbligatorio visto che ci sono norme in arrivo) un aggravio di 89 milioni.

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Non è solo il passato a gravare sui conti del Comune ma anche il presente, con una capacità di riscossione mediocre soprattutto su raccolta rifiuti e sanzioni stradali già prima del Covid. Le entrate correnti di competenza del Comune di Napoli, si è detto, sono di 1.619 milioni tuttavia non tutto l’importo si trasforma in gettito effettivo. In base all’andamento degli ultimi cinque anni, il Comune è obbligato ad accantonare preventivamente in nuove quote dell’Fcde ben 326 milioni, che rappresentano quindi il terzo macigno. L’ente, si è detto, spende al netto degli interessi 1.541 milioni. Dobbiamo chiederci però se tale cifra sia adeguata a fornire ai residenti i servizi che sarebbero necessari, o non è sottodimensionata. A Napoli il trasporto pubblico, la manutenzione stradale, il tempo pieno a scuola, l’assistenza ai disabili e così via sono di livello accettabile? La risposta è no, ma per saperlo in modo puntuale andrebbero definiti i livelli essenziali delle prestazioni e cioè fissare l’asticella che indica la quantità e qualità minima di servizi. In assenza dei Lep, in Italia dal 2015 sono stati calcolati i fabbisogni standard Comune per Comune tenendo conto dei servizi storici erogati (quindi se un servizio è carente si certifica che il diritto futuro deve essere proporzionato al servizio storico). Per stimare i Lep, bisogna applicare a Napoli i fabbisogni standard riconosciuti in una città di pari rango, ovvero capoluogo regionale al centro di un’area metropolitana di almeno 3 milioni di abitanti, cioè Milano. Ebbene, i fabbisogni riconosciuti a Milano per tutti i servizi sono di 943 euro per abitante (Milano poi, essendo ricca, spende molto oltre il suo standard). A Napoli, secondo la banca dati pubblica Opencivitas, la spesa standard riconosciuta per tali voci è di 814 euro per abitante, ovvero a Napoli non sono ammessi in termini di spesa servizi che sono considerati minimi indispensabili in una città di pari rango. Applicando alla popolazione di Napoli il differenziale tra fabbisogni standard (Lep potenziale) emerge un «disavanzo di diritti» di 125 milioni. Non li si trova in nessun bilancio contabile, ma incidono sulla vita quotidiana dei cittadini in termini di qualità e quantità di servizi. 

Tiriamo le somme. Con l’avanzo apparente di 78 milioni nel confronto fra entrate e spese di competenza nel 2020 bisogna coprire: 117 milioni di oneri sui 1.524 milioni di debito; 168 milioni di importo sui 2.613 milioni di disavanzo, più eventuali altri 89 milioni se non si troverà un rimedio alla sentenza 80/2021; altri 326 milioni di stima di mancate entrate di competenza; 125 milioni di maggiore spesa necessaria a raggiungere lo standard minimo di servizi. Per un totale di 747 milioni di disavanzo (finanziario e di diritti) in un solo anno. Dal punto di vista strettamente contabile, l’ente Comune di Napoli ha chiuso il bilancio 2020 in pareggio perché gli oneri sul debito sono coperti dall’avanzo apparente, i vari fondi per i crediti inesigibili vengono spalmati sugli anni futuri fino al 2044 e la mancata erogazione dei servizi sociali non è punibile ai sensi dell’articolo 120 della Costituzione perché non sono mai stati definiti i Lep e quindi non c’è un livello essenziale di servizi da garantire. Ma è evidente che i «quattro macigni» e cioè i 747 milioni di rosso annuo, che si sommano agli oltre 4 miliardi tra debito e disavanzo portano a una voragine di 5 miliardi. Che non può essere fronteggiata con azioni ordinarie. 

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