Cosa lascia de Magistris a Napoli:
incantesimi e macerie

di Vittorio Del Tufo
Mercoledì 20 Gennaio 2021, 07:00
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Chi auspicava il defenestramento di de Magistris dovrà accontentarsi del suo autodefenestramento. Il sindaco saluta e se ne va, verso nuove mirabolanti avventure. Bye bye Napoli, è stato bello. Bello? Difficile giudicare quello che, in particolare nell'ultimo periodo, semplicemente non è stato. In una città che soprattutto dopo l'emergenza sanitaria che si è abbattuta sul mondo non chiedeva altro che di essere amministrata - è chiedere troppo? - DeMa ha assunto la stessa consistenza del velo che avvolge il corpo del Cristo morto nella Cappella Sansevero: evanescente.

L'evanescenza del sindaco autodefenestrato sarà ricordata a lungo come una delle stagioni più autoreferenziali di questa strana città - Napoli - sempre pronta a mettere il suo destino nelle mani del Masaniello di turno. A Napoli l'autoreferenzialità del sindaco - come sono bello, come sono bravo, come sono rivoluzionario io - si è associata con il trionfo dei calcoli di convenienza politica, in una variante tutta napoletana che potremmo definire con un termine un po' colorito ma efficace cazzosuismo, ovvero quella particolare capacità di anteporre i propri (legittimi) calcoli personali all'interesse della città. Sia chiaro, de Magistris non ha inventato nulla di nuovo, alcun genere letterario. Il suo tatticismo estremo è lo stesso che ancora oggi, sembra incredibile ma è così, consente ai micropartiti che compongono la sua maggioranza - in alcuni casi poco più che particelle elementari, senza alcuna rappresentatività nella città reale - di vendere l'anima per un accordicchio, per una prebenda o per una convenienza futura.

Così l'istinto di autoconservazione del sindaco si è saldato, in quest'ultima, sventurata fase della vita politica della città, con i calcoli opportunistici di larga parte del personale politico, della maggioranza e, ahinoi, delle stesse opposizioni, che inevitabilmente hanno spinto Napoli verso la palude dell'immobilismo, senza uno straccio di idea, di progetto, di disegno per il futuro. Un eterno limbo di inconcludenza.

Queste cose le diciamo da tempo ma è bene ribadirle oggi che va in scena l'ultimo atto, con la decisione (ampiamente annunciata) del sindaco di correre, per mere ragioni di sopravvivenza politica, come governatore della Calabria. Si potrebbe ricorrere all'abusata metafora del comandante che abbandona la nave mentre cola a picco, ma siamo generosi e vogliamo riconoscere a de Magistris di aver provato, negli ultimi mesi, a dare prova della propria esistenza in vita, dapprima invadendo le tv di ogni ordine e grado nel tentativo di superare, in acuto, le voci degli altri protagonisti della scena politica, e poi piazzando le sue fragili bandierine (Alessandra Clemente, o il neovicesindaco Carmine Piscopo) a guardia di una Palazzo ormai tragicamente in disarmo. Purtroppo, o per fortuna, la sua voce è rimasta afona proprio mentre altrove, solo e inesorabilmente altrove (dalle parti di Palazzo Santa Lucia e Palazzo Chigi) si prendevano e si prendono decisioni in grado di impattare pesantemente sulla vita dei cittadini, come il coprifuoco e i divieti anti-Covid.

Il de Magistris che emigra - armi e bandana - in Calabria, lasciando Napoli alle sue macerie politiche e sociali, è lo stesso che anziché concentrarsi sulla cura della città, sulla sua manutenzione, ha preferito impiegare il suo e il nostro tempo prendendosi a sberle con tutti, dal Pd a De Luca passando per i poteri forti e chissà quali altre fantomatiche Spectre. Ma il sindaco emigrante deve prendersela innanzitutto con sé stesso per non essere mai realmente riuscito ad andare oltre la dimensione del consenso e della narrazione unilaterale. Per non aver capito che, se si è alla guida di una grande città, il lessico dei risultati conta molto più del lessico dell'autocelebrazione mediatica. Per non essere riuscito, nonostante gli innumerevoli e quasi nevrotici rimpasti in giunta, ad invertire una tendenza che vede precipitare verso il basso, da tempo, tutti i parametri legati alla qualità dei servizi, agli standard minimi che una città che voglia dirsi veramente moderna dovrebbe garantire.

Così oggi, per lui, parlano le strade dissestate, la voragine del bilancio, gli alberi abbattuti, il degrado diffuso, il welfare decimato, le periferie abbandonate.

All'inizio della sua stagione da sindaco, de Magistris ha avuto il merito, come pochissimi altri prima di lui (pensiamo al primo Bassolino) di soffiare sull'orgoglio della città e di cementarne il senso di comunità e di appartenenza. Il continuo ricorso alla liturgia demagogica della «rivoluzione di popolo» era funzionale a un progetto, per così dire, di cittadinanza diffusa. Il primo de Magistris sa parlare alla città, non a quella superbamente chiusa nei fortini autoreferenziali dei salotti di Chiaia e di Posillipo, ma soprattutto alla città altra, riuscendo a coinvolgere, a dare dignità e diritto di cittadinanza appunto, anche a quei segmenti di popolazione che si sono sentiti traditi e abbandonati dalla cosiddetta politica tradizionale. Dal mondo del volontariato alle categorie professionali, dai piccoli sindacati agli emarginati, dagli orfani del Pd e del centrodestra ai ragazzi di Insurgencia, dai centri sociali ai trans. Che Dema sia stato, per un lungo periodo, uno straordinario tessitore di consenso lo dimostra il 67 per cento con il quale ha riconquistato nel giugno 2026, la poltrona di sindaco.

Certo, ha avuto gioco facile ad ergersi a gigante in un mondo di nani, puntando sull'evanescenza degli avversari politici e in particolare del Pd, impegnato a lungo in esercizi estremi di tafazzismo a cominciare dal pasticcio delle primarie del 2011, con le accuse di brogli e voti comprati, che di fatto spianò la strada al sindaco oggi in uscita. Nel silenzio degli altri protagonisti la voce di de Magistris ha superato il frastuono del traffico e della città sventrata, come una sorta di voce incantatrice. Poi il suo abracadabra ha cominciato a stancare, perché è apparso chiaro che ciò che cui la città aveva (e ha) realmente bisogno era lontano anni luce dallo scivolamento progressivo dell'azione amministrativa verso una dimensione puramente estetica, simbolica, tutta politica. Risultati: zero. E il galleggiamento autoreferenziale del sindaco, spesso ammantato di retorica e di un certo antagonismo rivendicazionista ai limiti dell'eversione istituzionale (pane per i denti dei centri sociali, ma di pochi altri) alla fine non poteva che mostrare il fiato corto.

La (non) gestione dell'emergenza Covid ha dato l'ultima pennellata al dipinto. Dopo aver difeso per anni le ragioni della movida e del laissez-faire (fate un po' tutti come vi pare) è stato costretto ad abbracciare la linea del rigore dell'odiatissimo governatore De Luca; dopo aver detto no fino allo sfinimento alla riapertura al traffico del lungomare è stato costretto ad arrendersi al ritorno delle auto a causa dei lavori in Galleria che sono il frutto di anni di ignavia e di cattiva manutenzione; dopo aver strizzato l'occhio in diretta tv ai manifestanti che mettevano a ferro e fuoco Santa Lucia e isolato politicamente la città, ha fatto salire sull'ottovolante della sua giunta altri esponenti dei centri sociali, trasformando l'esecutivo della terza città italiana in un comitato elettorale per gestire una stagione amministrativa al tramonto.

Poi, separandosi dal resto del mondo, ha cominciato a tessere la sua trama per costruire una via di fuga, verso la Calabria che lo vide Pm, impegnato in delicatissime e assai controverse inchieste. Non sappiamo dove lo porterà la sua nuova avventura. Speriamo che, per il futuro, Napoli sappia ritrovare un po' di sano pragmatismo amministrativo dopo aver assaggiato il calice dell'illusionismo. È una terra sventurata quella che ha bisogno di sindaci incantatori. 

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