Il «fantasma» del 5 per mille e il welfare che arretra

di Antonio Mattone
Giovedì 13 Giugno 2019, 07:00
3 Minuti di Lettura
La Campania è agli ultimi posti in Italia per le donazioni del 5 per mille. Nella classifica relativa al 2017, tra i primi mille enti, solo sette appartengono alla nostra Regione, racimolando poco più di 2 milioni di euro. L'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, che guida la graduatoria, raccoglie più di 64 milioni.

La Fondazione Pascale, prima realtà campana, si posiziona al 50° posto ricevendo 768mila euro dai contribuenti, mentre gli analoghi enti che fanno ricerca sul cancro presenti in Lombardia, l'Istituto europeo di oncologia e la Fondazione nazionale dei tumori, raggiungono insieme oltre dieci milioni.

Questi dati evidenziano una grande sproporzione e una palese iniquità. Ricordiamo che la Campania è la regione italiana dove si vive di meno e, nello stesso tempo, quella che ha meno fondi per la Sanità pubblica, per essere il territorio con la popolazione più giovane. Un evidente paradosso a cui si aggiunge il record dei pensionati più poveri. Infatti, il 16,8 % di essi percepisce una pensione con un importo inferiore ai 500 euro mensili. E per finire è al quart'ultimo posto in Italia per numero di anziani che hanno perso le capacità funzionali. Ma si potrebbe continuare.

È indiscutibile che già esiste una regionalizzazione differenziata che tenderà ad avere effetti ancora più restrittivi se entrerà in vigore la riforma di cui si sta discutendo in questi mesi.

Ricordiamo anche che in Europa non siamo messi meglio, in quanto siamo al penultimo posto in quanto a donazioni al terzo settore. Quindi il fenomeno è anche nazionale.

Il Terzo settore rappresenta una delle poche possibilità per erogare tutti quei servizi di cui abbiamo e avremo sempre più bisogno, e che vengono forniti in misura ogni giorno più ridotta dallo Stato e dagli Enti locali. L’erosione continua di risorse fa arretrare sempre di più i livelli di welfare.

Perché allora i cittadini della Campania penalizzano gli enti no profit che svolgono attività di volontariato e di ricerca? Perché non colgono questa opportunità per cercare di ridurre il divario con il Nord che diventa ogni giorno più grande?

È difficile dare una risposta univoca, le cause potrebbero essere molteplici.

Sicuramente c’è un elemento di ignoranza, sia perché qualcuno potrebbe pensare di dover effettuare una donazione a sue spese, mentre il 5x1000 rappresenta una quota dell’Irpef, che verrebbe comunque versata dal cittadino allo Stato. Ma anche per la scarsa conoscenza dello strumento di sussidiarietà fiscale introdotto nel 2006 ma mai pubblicizzato abbastanza. Inoltre, la richiesta di aiuto viene indirizzata dagli enti in modo generico sulle finalità delle loro attività, senza dare informazioni sul contenuto dei progetti. In questo modo i contribuenti non si sentono coinvolti ed appassionati abbastanza per sostenere le associazione del terzi settore. Appare inoltre evidente che viene premiato chi spende molto in marketing, e quindi le grandi fondazioni presenti al Nord, penalizzando così le più piccole e deboli realtà meridionali. In questo modo chi ha più soldi riesce a generare un effetto moltiplicatore che incrementa ancora di più la distanza da chi possiede di meno.

La mancanza di fiducia potrebbe rappresentare un’altra motivazione. Non essendoci l’obbligo di rendicontazione, il contribuente potrebbe essere diffidente verso le onlus che fanno attività di volontariato o di ricerca scientifica e sanitaria senza indicare come vengono utilizzati i fondi incassati. Si dovrebbe superare l’approccio generico e misurare quanto i progetti migliorano le vite dei destinatari.

È evidente che sostenere le aziende no profit, oltre ad accrescere i livelli di assistenza e quindi a migliorare la vita delle persone fragili, crea un aumento di occupazione e di reddito per tutto un territorio. E se pensiamo alla crisi occupazionale della Campania, vediamo la grande necessità di rilanciare questo settore.

Il 5 per mille è stata una grande innovazione sociale, che può ridare al cittadino, almeno in parte, potere decisionale per potenziare il welfare e per far emergere dei bisogni.

C’è una cultura della partecipazione sociale e politica da rilanciare e ripensare. Anche perché nei prossimi due anni saremo chiamati a dover scegliere da chi essere amministrati, a Napoli e in Campania. Una scelta di cui essere consapevoli, da cui dipenderà il nostro futuro.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA