Giancarlo Siani e la cittadinanza onoraria che sana una lunga ferita

di Pietro Perone
Venerdì 13 Dicembre 2019, 08:00
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Partiva ogni mattina da piazza Leonardo al Vomero per imparare il mestiere di cronista nella frontiera di Torre Annunziata, città che Siani ben presto cominciò ad amare. In poco tempo Giancarlo imparò quali fossero all'epoca i luoghi d'incontro e dove era possibile attingere le notizie. Divenne amico un po' di tutti e trovò lungo la propria strada alcuni colleghi che in quel posto erano nati e che negli anni Ottanta cercavano di fare il mestiere di giornalista.

Nacquero così anche collaborazioni professionali, al di là del lavoro per il Mattino, con periodici e televisioni locali, un doppio impegno che induceva Siani a trascorrere l'intera giornata ormai nella sua città adottiva. Sono in molti che lo ricordano ancora a bordo della famosa Mehari verde in testa ai cortei anti camorra che si tenevano in quegli anni o al fianco degli operai della Deriver in lotta per sventare la chiusura della loro fabbrica.

Ma così come la città accolse velocemente Siani in vita, allo stesso modo cercò repentinamente di allontanare il suo ricordo dopo la morte, tentativo di spostare altrove lo scenario entro cui è maturato l'assassinio. Non sembrò vero a molti torresi che il pregiudicato loro concittadino, Alfonso Agnello, fermato a poche ore dal delitto, tirasse fuori un alibi di ferro che lo scagionava dall'accusa di essere il killer. E quando l'inchiesta condotta dal procuratore dell'epoca, Aldo Vessia, prese la strada di Napoli, quella delle coop degli ex detenuti, il clan Giuliano di Forcella e Giorgio Rubolino, Torre Annunziata tirò un altro sospiro di sollievo.

Ci sono voluti otto anni per squarciare il velo di silenzio che nella città adottiva di Giancarlo era caduto sul delitto e scoprire quanto di marcio c'era invece negli anni in cui Siani faceva il giornalista nei vicoli del Quadrilatero delle carceri, regno del clan Gionta, i legami perversi tra politica e camorra, le connivenze che si nascondevano dietro il velo di perbenismo di una certa borghesia. Ci sono voluti anni per capire che non sempre chi provava a dare notizie a Siani lo faceva per amore della verità e quanto chi ricopriva cariche istituzionali fosse ormai passato sul fronte opposto a quello dello Stato: «Sì, lo confermo, sono indagato per il delitto, ho ricevuto un avviso di garanzia in carcere», fu costretto ad ammettere in un'aula di tribunale l'ex sindaco di Torre Annunziata, Domenico Bertone, il 17 novembre del 1994. L'ex potente di un tempo, uscito poi indenne dall'inchiesta sul delitto, fu ritenuto in altre indagini a capo di un comitato di affari che all'epoca teneva in scacco la città insieme con il clan Gionta, a sua volta legato con la cosca dei Nuvoletta da cui partì l'ordine di morte contro Siani. Una sentenza emessa nonostante il padrino torrese non fosse d'accordo perché temeva l'onta che poi la comunità cercò in tutti i modi di allontanare.

Trentaquattro anni per sanare una ferita rispetto ai colpevoli silenzi degli anni immediatamente successivi all'assassinio quando proprio a Torre Annunziata si sarebbe potuta accendere invece una luce sul buio fitto in cui era stata cacciata l'indagine. Ha raccontato l'amica di Giancarlo, Chiara Grattoni, che Siani nei mesi precedenti il suo martirio stava scrivendo un libro con un sacco di foto bellissime scattate in città. Ulteriore segnale di un legame strettissimo, un amore che andava al di là degli interessi professionali; l'idea che attraverso il mestiere di giornalista si potesse anche contribuire a migliorare un po' una realtà segnata dal sangue della criminalità e dalla desertificazione industriale che in quegli anni cominciava il suo percorso ineluttabile. La tardiva cittadinanza che oggi Torre Annunziata concede a Giancarlo è dunque un primo passo verso la riconciliazione con il suo eroe civile, l'occasione per chiedere finalmente scusa per i troppi silenzi e le colpevoli omissioni di chi possedeva probabilmente chiavi di lettura sul delitto e invece ha taciuto.
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