L'editoriale del direttore Barbano | Un tratto di matita per spegnere i rumori

L'editoriale del direttore Barbano | Un tratto di matita per spegnere i rumori
di Alessandro Barbano
Domenica 31 Maggio 2015, 09:24 - Ultimo agg. 20:09
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Cari elettori, nel giorno del voto voglio farvi una confessione. Da un paio d'anni non guardo più la televisione, se non per vedere le partite del Napoli. Non è stata una scelta consapevole, ha deciso l'istinto. Ho smesso di accenderla, semplicemente. E non ne ho sentito la mancanza. Mi direte: come si fa a dirigere un giornale senza guardare la televisione? Si fa, io l'ho fatto, e lascio naturalmente a voi il giudizio. Certo, il direttore del Mattino può fare affidamento su una redazione di colleghi di qualità ed esperti, su una rete di collaboratori e corrispondenti prestigiosi, sulle agenzie di stampa e i siti di informazione e, da ultimo, sui contatti con personalità più o meno influenti e informate su ciò che accade. A me è bastato. Anzi col tempo mi sono convinto che la videoastensione mi regalava una ponderatezza e un distacco decisivi. Tanto che ho provato e continuo a provare un crescente imbarazzo per quelle circostanze, per fortuna rare, in cui al direttore di un giornale è richiesta una partecipazione attiva in tv e in cui sottrarsi mi parrebbe ridurre la mia scelta a uno snobismo.

Tre sere fa, a casa, i miei occhi sono caduti sul telecomando confuso tra una pila di libri. Cedendo a un riflesso remoto, ho riacceso la tv. E sono rientrato nel passato: una rissa verbale tra due protagonisti di un talk show, come le tante a cui per anni ho assistito. La mia reazione è stata di rifiuto. Ho cambiato canale. Ma sono passato in un altro talk e in un'altra rissa, ancora più cruenta e confusa, perché le voci, che qui si coprivano l'una con l'altra, erano almeno cinque. Conoscevo i temi del dibattito. Erano gli stessi su cui avevo organizzato la mia giornata di lavoro al giornale. Ma la loro rappresentazione li frantumava per faglie sovrapposte, come avviene in certe pitture cubiste del primo dopoguerra, dove la realtà coincide con una scissione e racconta la malattia. Ho intuito allora con chiarezza dentro di me quale straordinaria occasione ho avuto rinunciando per due anni a questo drammatico rumore di fondo.

Perché utilizzo questo argomento? Perché così mi appare la campagna elettorale appena trascorsa: un rumore di fondo crescente e oppressivo, prodotto da tanti soggetti che non hanno mai spento la televisione, anzi vi sono entrati dentro e si sono con il tempo persuasi che la loro vita e il loro impegno politico coincidesse con la televisione. Spegnete voi, allora, la loro televisione. Vi accorgerete che sotto c'è ancora la realtà, o almeno un'altra realtà in cui le grida, i toni, gli accenti della prima, quella televisiva, sfumano e rivelano la loro relatività.

La realtà che sta sotto la coltre di due mesi di campagna elettorale è quella di una regione che ha 6 milioni di abitanti, 5 milioni di elettori e X milioni di votanti. Quella X sarete voi a determinarla, nel peso numerico e nel significato simbolico, se vorrete. Ma siete chiamati a farlo tanto più perché siete stati offesi da una così grande confusione. Se l'esercizio del voto è un diritto, il suo paradigma narrativo è stato voltato nel divieto: così siamo arrivati alle urne tra incandidabili, ineleggibili e impresentabili.

Intendiamoci, qualche problema c’è. Non è mia intenzione portarvi con un sortilegio narrativo in un luogo altrettanto virtuale in cui la Campania appare un giardino incantato. Vi propongo però un racconto degli ultimi tempi depurato di qualche forzatura. Partendo da una premessa, che spero condividiate con me: la democrazia è imperfetta, e lo è di più quando è marginale. La democrazia della Campania è marginale, quindi doppiamente imperfetta. Affanna, fa fatica a tirarsi su, evolve con difficoltà tra le tante piaghe sociali e un certo isolamento che il Mezzogiorno paga. Chi sperava che una nuova stagione s’imponesse a tutto il Paese d’emblée, come effetto di un processo di rinnovamento iniziato al centro, è stato smentito. Qui la distanza tra la politica e i migliori è una voragine che la crisi allarga. Ci sono troppi «figli» che se ne vanno. E altrettanti «figli di» che restano. Legittimi, naturali e adottivi, prova di un corporativismo familiare malato. Ci sono ancora pacchetti di voti da comprare. Si stanno comprando, in queste ore, in cambio di una spesa alle famiglie povere. Ci sono soprattutto i camorristi. Che pure sarebbe sbagliato considerare sconfitti. Se i capi sono in carcere, le loro famiglie allargate sono in mezzo a noi. La loro subcultura cammina, s’infiltra tra le generazioni, si riproduce perfino nella rete. Pericolosamente attrae.

Perciò la politica ha il diritto dovere di distinguere, scegliere una via di demarcazione più netta possibile, per affrancarsi da quelle zone grigie in cui c’è il rischio di essere contaminata. E qui sono mancate due virtù. La prima è il coraggio di cambiare. Aprire i recinti della rappresentanza, invogliare i migliori ad entrarvi, far vincere le idee. Facile a dirsi, ma non a farsi in un Paese in cui la crisi dei partiti taglia la loro interfaccia con la società. Dopo il coraggio però è mancata anche la prudenza, in nome della vittoria. Complice una legge elettorale che incentiva le alleanze quantitative e mortifica la qualità delle scelte in lista.

Ma se pure tutto questo è vero, la Campania porta a Palazzo i camorristi? Caldoro, nelle cui liste figurano 9 «impresentabili» e De Luca, «impresentabile» egli stesso a giudizio della Commissione Antimafia, sono due camorristi? Sono il riferimento collusivo o complice della camorra? Sono due centri di potere che con la camorra hanno provato a convivere e a tollerarsi? No, sono il contrario. Sono due amministratori che hanno dimostrato, tra difficoltà che avrebbero fatto tremare i polsi a molti colleghi del Nord, come sia possibile avviare e condurre esperienze amministrative trasparenti. La loro rivincita dopo cinque anni si racconta come l’esito di un mancato ricambio, soprattutto a sinistra. Ma prova anche la debolezza di tutto ciò che sta attorno a loro e non è cresciuto. Perché molti germogli alternativi sono stati innestati, seccando prima di sbocciare.

La stessa fede meritano gli altri candidati: Valeria Ciarambino, Marco Esposito, Salvatore Vozza. Storie di personalità specchiate e di esperienze nell’impegno sociale, nelle professioni e nella politica, che suscitano rispetto. E che pure hanno tentato di sfidare i due maggiori contendenti sui temi per cui, voi elettori, oggi andate alle urne. Hanno tentato anche loro di spegnere la televisione e di impedire che questa prova elettorale, ancorché imperfetta, fosse il cosiddetto campo neutro di altre battaglie, ancor meno «presentabili».

Non ci sono riusciti. Nessuno è riuscito a sottrarsi a quest’accelerazione drammatica che prende la democrazia alla gola e la strozza nell’urna, facendone uscire le emozioni peggiori. C’è chi quelle emozioni le ha coltivate per calcolo, agitando la clava del moralismo indignato con il cinismo che solo certi sacerdoti laici hanno. E c’è chi s’è fatto trascinare, per debolezza di pensiero e di spirito, e tra questi intellettuali e pensatori, pure autorevoli, tentati di suggerire ai cittadini una giornata al mare al posto del voto.

Spegnete anche la loro televisione, cari elettori. Fatelo votando per una Regione che governerà nei prossimi cinque anni alcune cose importanti per voi, e tra queste la sanità, i trasporti, lo sviluppo delle grandi opere, il risanamento ambientale. Scegliete sulla base del vostro intuito e della vostra esperienza chi tra Caldoro, De Luca e gli altri candidati può fare meglio. Sarà la prova che tutto il superfluo, volgare e vociante combattersi per il potere, sulla vostra pelle, viene via con un tratto di matita.

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