Napoli, se il bene comune resta solo uno slogan

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 9 Giugno 2019, 08:00
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Ci sono delle tragedie di cui si dice che erano annunciate e altre che si sono abbattute sulle vittime in maniera imprevedibile. Sempre però gli uomini stanno, in entrambi i casi, dinanzi all'accadimento con la consapevolezza di dover fronteggiare una potenza, sia essa della natura o delle passioni umane, l'amore, l'odio, l'avidità. Quello che accade acquista così un senso e trova posto in un ordine rappresentabile dell'esistenza. Ci sono invece eventi completamente diversi. Non meno tragici nelle loro conseguenze ma in cui a risaltare è un altro tipo di grandezza: la sproporzione enorme tra la somma del dolore prodotto e l'insignificanza delle cause che lo hanno generato. È ciò che è accaduto a Napoli, ieri mattina. È ciò che accade troppe volte in città.

Il pezzo di trabeazione venuto giù dal quinto piano, a mezzogiorno, in via Duomo, nel cuore popoloso della città, in mezzo ad una folla di passanti e di turisti, uccidendo un uomo, un commerciante, su quella strada da sempre, non è caduto all'improvviso. Era avvolto in una rete di protezione, i cui resti sono ben visibili nelle foto. Qualcuno dunque sapeva. Sapeva il proprietario del palazzo, sapeva l'assemblea dei condomini, sapevano i vigili urbani, sapeva quindi l'amministrazione comunale. Sapevano, ma nessuno è intervenuto. Hanno messo una toppa, e chi si è visto si è visto. Poi si farà, si saranno detti tutti.

Girate per le strade di Napoli. Alzate gli occhi al cielo. Di questi rattoppi, la città è piena. Una città rabberciata, dove le cose vengono sistemate alla meno peggio. Tutto a posto finché regge. Ieri mattina, il cornicione di via Duomo non ha retto più. E la rete di protezione, sotto il peso dell’enorme quantità di materiale staccatosi dalla facciata del palazzo, si è squarciata. Un uomo è morto, e la sua famiglia, oggi, è stravolta.

È già successo. Alla stessa maniera. Cinque anni fa. Un ragazzo di quattordici anni, mentre camminava lungo via Toledo, è stato colpito alla testa da un fregio che si era staccato dalla facciata dell’accesso monumentale della Galleria Umberto. Anche in quel caso non si trattò di un evento imprevedibile. Le segnalazioni si erano ripetute, eventi minori si erano prodotti quasi regolarmente. Eppure nessuno fece niente. E le persone morte schiacciate da alberi malati e pericolanti? Quante segnalazioni, anche in quel caso, e quanta trascuratezza in chi era deputato ad intervenire.

Perché? Perché a Napoli si rischia la disaffezione al bene collettivo. L’indifferenza, l’assenza di cura per la cosa pubblica, l’irresponsabilità civile, la mancanza del sentimento di un lavoro ben fatto, della soddisfazione di chi può dire «oggi ho lavorato bene», tutto questo è un pane troppo diffuso in città.

Pubblico e privato non fa molta differenza. È colpa del sindaco, è colpa degli assessori, è un berciare continuo alla ricerca di un alibi. La verità è che la città rischia di essere vittima anche dei suoi stessi abitanti. Che d’altronde passano facilmente dagli osanna alle maledizioni, incoronano re e capipopolo di cui il giorno dopo reclamano la testa. Per molti, troppi napoletani, la città è diventata un’occasione per spillare un po’ di quattrini. Bed & Breakfast, pizzerie, bar sono spuntati come funghi in questi anni, complice un afflusso turistico attratto da una storia e da un paesaggio a cui i suoi beneficiari non hanno apportato un grano di valore e che anzi saccheggiano sistematicamente. Ne è venuta fuori una vegetazione infestante di micro attività cosiddette imprenditoriali che esprimono una vera e propria economia di rapina. Che prende senza dare niente in cambio.

Sicuramente, nessuno di questi cosiddetti imprenditori ritiene di dover assumere la benché minima responsabilità riguardo al patrimonio edilizio di cui pure beneficia. Nessuna cura, nessuna manutenzione, nessuna messa in valore. Ripeto, nessuna assunzione di responsabilità nei confronti del patrimonio urbano. Napoli, evidentemente, non è un bene comune dei napoletani: viene quasi da pensare che, a dispetto di una certa retorica, essi non amino fino in fondo la città che abitano. 

Ed è così che si produce il degrado delle notti napoletane, inquinate dal rumore, dalla presenza minacciosa di migliaia di persone che trovano divertente bere e berciare ad alta voce per strada fino a tarda notte.

Tutto questo non basterebbe tuttavia se non accadesse in uno spaventoso vuoto amministrativo. Napoli è oggi una città pericolosa perché non è governata. Non è governata nelle dimensioni più minute dell’organizzazione della vita pubblica. Prendete le strade. Non ci sono cumuli di immondizia nei cassonetti, ma guardate ai bordi dei marciapiedi. Ci sono intere zone del centro che non vedono la scopa di uno spazzino da tempo immemorabile, per non parlare dell’impiego dei macchinari per la pulizia viaria. I giardini pubblici, quei pochi che ci sono in città, la Villa Comunale, sono diventati delle bidonville. Deposito di rifiuti a cielo aperto, non beneficiano né di giardinieri né tanto meno di netturbini. La capacità del comando dei vigili urbani di imporre alla folla che invade la zona dei bar e delle pizzerie un comportamento compatibile con le regole elementari della convivenza civile è pari a zero. Nessuno osa imporre e tanto meno far rispettare divieti alla miriade di rivenditori di bevande alcoliche oltre una certa ora. Molte zone della città e tra le più prestigiose sono state semplicemente cedute a privati per le loro attività commerciali.

A questa abdicazione dell’amministrazione ad interessi commerciali di tipo predatorio corrisponde una incredibile incapacità progettuale. Nel 2002 il progetto Sirena aveva rappresentato una brillante soluzione allo storico problema dell’interazione tra istituzioni e cittadini sul terreno della preservazione e del recupero di un patrimonio edilizio che a Napoli è diffusamente nelle mani di proprietari privati. È andato avanti per circa dieci anni. Ma è dal 2013 (con qualche sporadica ripresa nel 2016) che non se ne è fatto più niente.

Ogni città è un corpo che richiede cure, manutenzione, interventi. Tanto più lo è Napoli con la sua stratificazione unica al mondo. Una continuità storico-culturale due volte millenaria che chiede partecipazione, preparazione intellettuale, sentimento della grandezza. Tutte cose che oggi mancano. Così come manca una adeguata consapevolezza nazionale della gravità del problema.

Il povero signor Rosario Padolino è morto soprattutto di questa assenza.
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