Napoli fuori da tutti i giri e ripiegata su se stessa

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 24 Marzo 2019, 00:00 - Ultimo agg. 09:12
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Silvio Perrella venerdì, sulle pagine di questo giornale, ha scritto che il problema di Napoli è che manca di una visione. Ha ragione da vendere. La questione è, ancora una volta, costituita dalla qualità delle cosiddette classi dirigenti, questa categoria tipicamente novecentesca e che sembra custodire le chiavi del problema meridionale e, in modo particolare, della crisi napoletana. Vedere per dirigere, rappresentarsi il mondo e rintracciare in esso lo schema di un possibile sviluppo. Ma di chi o di cosa? di Napoli, del Mezzogiorno, del paese, del mondo? E in che rapporto sta Napoli con ciascuno di questi elementi? Se c’è un tratto che distingue il dibattito napoletano di questi anni è sicuramente il fatto che la città è diventata l’ossessione di sé stessa. Napoli è l’argomento reiterativo per eccellenza.

In questo c’è, non ultimo, il segno di un preoccupante ripiegamento della città. Lontana dall’Italia, debolissima politicamente, isolata, tanto al governo che all’opposizione, Napoli sembra essere priva, oggi, di un discorso che la riconnetta alle prospettive generali del paese. Non compare nella delineazione dei nuovi scenari strategici italiani. Il suo porto, ad esempio, ma il discorso vale per tutte le stazioni marittime del Sud, è stato letteralmente cancellato dalla nuova geografia disegnata dall’accordo con la Cina. Napoli, e con esso, Taranto, Gioia Tauro, ma anche Bari e Brindisi, non si ritrovano sulle nuove carte globali, a vantaggio di Genova e Trieste, al Nord, ma anche del Pireo in Grecia e di Tangeri sulle coste mediterranee del Nord Africa, a significare che questo mare non è marginale dentro la nuova geopolitica.

Ma invece di rappresentare una opportunità di sviluppo italiano viene abbandonato ad altri. Questo accade perché le basi logistiche del Mezzogiorno d’Italia sono inadatte ad accogliere le richieste poste con urgenza dalla riconfigurazione delle tratte del commercio mondiale. Mancano siti di stoccaggio, o se ci sono andrebbero migliorati, mancano soprattutto le strutture intermodali di collegamento, capaci di mettere i porti meridionali nel circuito delle vie di comunicazione europee e transeuropee, quei famosi “corridoi” che nella forma del feticcio della Tav monopolizzano tutta l’attenzione della politica italiana. Che cosa fa una nave quanto arriva a Gioia Tauro o a Taranto, qual è lo stato della rete ferroviaria al Sud? Le condizioni della Sicilia, l’inesistenza di una infrastruttura su ferro degna di questo nome, la condizione generale della rete autostradale, sono tutte questioni note, per tacere di cosa voglia dire risalire la penisola una volta attraversato lo stretto, lungo la Calabria e di qui verso Napoli e l’Europa.

Il Sud è abbandonato alla sua inefficienza, all’inadeguatezza di una infrastruttura ormai troppo risalente nel tempo e mai completata. Soprattutto, senza investimenti degni di questo nome. Pubblici, innanzitutto; e, di conserva, anche privati, Tocchiamo così con mano, oggi, gli esiti di scelte che sono state compiute da tempo. Quando, ad esempio, la cosiddetta via della Seta, già nel 2015, consule Gentiloni, divenne una questione impellente su cui il governo italiano fu chiamato ad assumere decisioni strategiche. Tra intervenire al Sud, per metterlo nelle condizioni di partecipare alla gara, e valorizzare quello su cui il paese poteva già contare, la scelta più logica venne compiuta.

Ma l’assenza di una classe dirigente meridionale, ed è questo il punto cruciale, ha fatto sì che il problema non fosse nemmeno sollevato dal punto di vista degli interessi legittimi del Mezzogiorno allo sviluppo. Napoli, che pure è sede di una importante autorità portuale, e altrettanto si può dire di Salerno, per restare solo in Campania, non sono mai diventate in questi ultimi cinque anni i luoghi di una vera discussione pubblica su questi argomenti; una discussione importante, aperta all’ Italia e al mondo, capace di mettere all’ordine del giorno del Paese il problema dello stato delle infrastrutture logistiche e del loro sviluppo strategico, che fosse all’altezza delle nuove sfide del secolo. E dire che da queste parti, la retorica mediterranea si vende sfusa e a pacchetti, come usa dire. Napoli e il Mediterraneo, la piattaforma nel cuore del Mare nostrum. Niente di tutto questo è uscito dal chiuso della convegnistica provinciale, delle discussioni d’occasione, della saggistica accademica.

Viceversa, Napoli è una città che con cadenza quotidiana ausculta se stessa, come il più nevrotico degli ipocondriaci. Giorni persi a discutere di Caravaggio, di quattro pietre a piazza del Plebiscito, di quant’è bella Napoli e quanto è maltrattata negli stadi da quattro analfabeti di Milano o Bergamo o di dove vi pare. Allarmi di scrittori sull’odio di cui sarebbero fatti segno in giro per il Nord i meridionali. C’è gente che sui siti social passa il tempo a spulciare le cronache dei più insignificanti giornaletti di Brescia per dire, avete visto non succede solo a Napoli, i ladri, i mafiosi, i cattivi ce li avete anche voi. Tutto questo è patetico e dice solo una cosa. Quando non c’è niente da fare, quando le decisioni che contano sono prese da altri e altrove, le persone cominciano ad occuparsi del nulla. Dunque è vero quello che scrive Silvio Perrella. Napoli è priva di una visione. Ma ogni visione è tale perché intenzionale. Non bastano gli occhi per guardare, bisogna decidere in che direzione volgere lo sguardo. Forse bisognerebbe smettere di contemplare preoccupati il proprio ombelico, mentre il mondo cambia a ritmi vertiginosi.
 
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