Il fallimento della borghesia nella città senza più voce

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 21 Aprile 2019, 09:00
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Il cardinale Crescenzio Sepe, in una lunga e interessante intervista rilasciata a questo giornale ieri, ha definito indisponibile la borghesia napoletana. La città non può così beneficiare, secondo l'illustre prelato, dell'esperienza della sua classe dirigente: modo di vedere e modo di fare restano un patrimonio etico non condiviso.

Il tema, come è noto, è ampiamente dibattuto e sulla latitanza civile dei ceti imprenditoriali e professionali di Napoli è stato scritto e si scrive tantissimo. Si scrive però, e questo è un punto che mi piacerebbe discutere, a partire da un assunto, e cioè si dà per scontato quello che scontato non è: la borghesia. Prigionieri di un birignao sociologico buono per tutte le occasioni, noi applichiamo categorie che al contrario richiederebbero una qualche precisazione.

Borghesia è una di queste. Che cosa abbiamo in mente quando la utilizziamo, a chi pensiamo concretamente? Agli imprenditori, agli avvocati, agli intellettuali, ai commercianti, a quelli che abitano al Vomero, a Chiaia o dove? Esiste una borghesia napoletana, ed eventualmente, quali sono le sue misure e il perimetro dell'insediamento sociale, come si diverte, cosa legge, quale musica ascolta, in una parola quali sono i suoi valori? Soprattutto, quanto potere ha? E poi, basta avere dei soldi per essere dei borghesi? Prendete il sindaco di Napoli.

Arrivò a Palazzo San Giacomo sull'onda di un movimento politico, all'inizio del decennio, che vinse al Sud come al Nord, gli arancioni. A Milano venne eletto un altro uomo di legge, Giuliano Pisapia. Un magistrato e un avvocato. Ma che avvocato! Non solo era stato ministro di Grazia e Giustizia, ma la sua cultura giuridica non era propriamente di chi aveva vinto un concorso. Aveva alle spalle una tradizione, e una tradizione napoletana per giunta. Ma una tradizione che a Napoli sembra esaurita e che ha trovato nuovo terreno lontano dalla città. Anche Pisapia mise insieme pezzi diversi. Imprenditori, ceti professionali urbani, il radicalismo dei centri sociali. La sua formula non era meno popolare e ampia di quella del suo collega partenopeo, ma pensate ai toni dell'uno e dell'altro e avrete un'indicazione precisa circa la necessità di essere prudenti quando si usano certe categorie. Si può obiettare che è la politica e che le due città sono molto differenti, di qui anche gli stili pubblici diversi di chi le governa. A Milano, il cittadino mediamente informato non ha però notizia dell'attivismo di fratelli del sindaco. A Napoli, la vicenda è ampiamente dibattuta. Un tratto dell'educazione borghese è la riservatezza e la famiglia appartiene saldamente al dominio dell'intimità. A difesa di questa intimità c'è di solito un patrimonio che ha la funzione essenziale di temperare gli appetiti. Ma soprattutto la professione che, nel caso in cui il familiare ha di che farsi valere, talento e voglia di fare, costituisce un potente fattore per l'identificazione e il perseguimento delle vocazioni individuali. Ognuno va per la sua strada alla ricerca di un terreno sul quale dare prova di sé. Un elemento fondamentale che definisce il borghese è lo spirito borghese. E questo spirito a Napoli manca clamorosamente a differenza di Milano. Prendete la cosiddetta società civile. La sua tenuta non si misura solo con il metro dell'impegno e della mobilitazione civica. Di più, con quello della fedeltà ai luoghi e alle istituzioni della sua formazione e riproduzione sociale. A Napoli molti di questi luoghi sono generalmente in condizioni pietose, sull'orlo del fallimento o della liquidazione. Senza che i soci sappiano o vogliano veramente fare qualcosa. E che dire della sfera dell'associazionismo professionale? Dell'ambito, cioè, in cui l'attività economico privatistica del borghese si fa autogoverno di ceto. Le recenti vicende dell'ordine degli avvocati costituiscono una pagina imbarazzante sulla quale è meglio non tornare.

Parliamo invece della scuola, di quel famigerato liceo classico che tutti conoscono come scuola della borghesia. C'è un borghese a Napoli che si è mai alzato in sua difesa? Un'associazione di ex allievi che quando l'istituto sia stato minacciato di scomparire, come è successo anni fa per il glorioso liceo Genovesi, si sia mobilitato in sua difesa? A me non risulta. Il Sannazaro qualche mese fa è diventato famoso per le uscite didattiche in ciabatte e pedalò sulle spiagge di Varcaturo, che non è propriamente Capalbio. Qualche borghese si sarà chiesto come mai i loro figli facessero lezione in spiaggia o si è messo l'anima in pace pensando con i latini: ludendo docere? E l'Umberto, l'altro storico liceo napoletano? Poche settimane fa è assurto agli onori delle cronache perché i bagni sono fuori uso. Il fatto è che noi chiediamo una reazione ad una borghesia impoverita sia sul piano materiale che delle sue risorse simboliche. La borghesia napoletana è un soggetto sociale privo di potere, con una base economica esigua, aggrappata ad alcune istituzioni e ad alcune abitudini come a vecchi cimeli di famiglia ormai logori. Ma c'è anche un'altra considerazione da fare. E qui il discorso non può restare confinato nel perimetro delle disavventure del borghese napoletano. Perché i cosiddetti valori borghesi quasi mai sono frutto della borghesia stessa. Lo spirito di intrapresa, la ferma determinazione a realizzare le idee concepite, la disciplina necessaria per dare costanza al proprio lavoro e l'autorità perché le disposizioni date vengano eseguite con prontezza, sono tutti valori che la borghesia eredita da qualcun altro, da un passato più remoto, ma che soprattutto richiedono uno strato protettivo, una cintura di valori più alti e, diciamo così, intangibili, tali da presidiare efficacemente lo spazio sociale, senso della gerarchia, onestà, coraggio, individualismo, fede. Altrimenti il fortino borghese è un fortino senza difese. E un fortino senza difese, come diceva qualcuno, fa gola a molti.

E allora, se questo è il terreno su cui provare a comprendere il senso più generale di una resa, bisogna fare spazio ad una considerazione più ampia e chiedersi tra le altre cose, ad esempio, quale altro ruolo intende svolgere la Chiesa, quando Sepe nella sua intervista dice della necessità di fare rete, oltre la mera composizione di interessi contrastanti e molto litigiosi. È comprensibile che alla Chiesa lo spirito borghese non stia particolarmente a cuore ma provare ad organizzare una borghesia che non c'è pure non depone molto favorevolmente sulla buona riuscita di un'impresa che si vuole concepita per il bene della città.
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