Napoli, i filantropi a proprio vantaggio

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 28 Aprile 2019, 09:00
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La Fondazione Strachan-Rodinò si occupa tra le altre cose di assistenza ai ciechi. La sua è una storia comune a molte iniziative filantropiche sorte nel corso del diciannovesimo secolo e diventate con il tempo enti morali assoggettati al dominio della legge. Oggi compare sulle pagine del giornale per vicende che con l'assistenza e la filantropia hanno ben poco a che fare. Non ci sono fatti penalmente rilevanti, almeno non per il momento, e non è questo che ci interessa. C'è però in gioco una questione, diciamo così di stile, il tratto emergente di un'antropologia dei ceti civili meridionali che ancora una volta non depone molto a favore della loro aspirazione a essere classe dirigente, élite.

La notizia l'abbiamo letta sul Mattino. Tra chi siede nel vecchio consiglio di amministrazione, ancora in carica nonostante il Comune di Napoli abbia provveduto alla nomina di un nuovo Cda (che tuttavia non riesce ad insediarsi in attesa di apposito decreto della Regione), tra chi siede nel consiglio di amministrazione della fondazione, dicevo, c'è chi contemporaneamente beneficia a prezzi, in alcuni casi agevolati, del patrimonio immobiliare della fondazione stessa che è chiamato ad amministrare. C'è chi ne ha fatto lo studio professionale, chi la propria residenza privata, chi addirittura un albergo gestito, si legge, con grande profitto. Niente lo vieta; nel caso specifico non esiste una norma regolamentare che individui il conflitto di interessi e lo neutralizzi.

Ma nessuno là in mezzo ha mai neanche sentito il bisogno di cambiarlo il regolamento. Salvo, a quanto ha dichiarato a questo giornale, l' ex consigliere Daniela Villani ma senza successo, come pare evidente. Tutto ciò che non è vietato è dunque consentito? Se fosse così bisognerebbe prevedere una norma positiva per ogni più minuta regolazione dell'interazione sociale. 

A preservare la vita comunitaria dall'ingolfamento normativo ci sono norme di altro tipo, non codificate, ma proprio per questo più costrittive. Sono le norme morali, a volte il semplice buon gusto. In questo caso anche il naturale senso del pudore. Niente di tutto questo mi pare presente nella vicenda di cui stiamo parlando. È una storia antica, dicevo quella delle fondazioni filantropiche, comune a molte città, di cui racconta quello che si può senz'altro definire un capitolo, e non il meno rilevante, della biografia delle loro classi dirigenti. 

La filantropia infatti non è solo ciò che viene prima dello Stato sociale, la carità organizzata degli abbienti a vantaggio delle classi diseredate e potenzialmente pericolose: è una forma di esercizio di rappresentanza sociale da parte delle élite urbane. In un mondo in cui i poveri sono esclusi di fatto e di diritto dalla possibilità di esercitare in prima persona, autonomamente, diritti civili e politici che dovranno conquistarsi a fatica, e con l'esplicito intento di rimandare quanto più è possibile questo momento, i patriziati urbani dell'Ottocento, cattolici e laici, ritengono di doversi assumere l'onere pubblico di sovvenire ai più elementari bisogni popolari. Tra questi, l'assistenza agli infermi. Si trattava di strappare soprattutto i più giovani alla mendicità e alle molte occasioni di delinquere che una vita trascinata per strada offriva. Era un modo di esercitare compiti connessi alle varie responsabilità pubbliche che definiscono una élite come tale. Dopo secoli in cui le forme più elementari di assistenza al popolo erano state esercitate dalla Chiesa e dalla rete capillare delle sue strutture, la comparsa di una filantropia privata è anche il segno di una incipiente mobilitazione politica e sociale dei settori più cospicui delle società urbane, aristocratici e borghesi. C'è in questo un pezzo importante della storia del liberalismo ottocentesco e della passione risorgimentale delle classi dirigenti italiane. Al Sud e a Napoli, in modo particolare, l'Unità d'Italia rappresenta il momento in cui fioriscono molte di queste iniziative caritatevoli. Tra il 1861 e il 1868 è il caso dell'Opera per la Mendicità che sarebbe poi diventata la Fondazione Strachan-Rodinò. Dunque, patriottismo, sentimento del legame comunitario, impegno politico declinato non nelle forme della partecipazione al potere ma sul terreno della responsabilità civile. Sono questi tratti che definiscono ciò che in una società moderna si chiama élite. A Napoli, mancano. O meglio, visto il caso del povero Leopoldo Rodinò, non ci sono più. Ancora una volta, il rapporto che i ceti che pretendono di dirsi dirigenti stabiliscono con la comunità è di tipo predatorio, un'occasione per pensare a sé stessi, al proprio tornaconto personale, ai propri interessi. Sulla pelle di chiunque, anche di quelli che meno degli altri sono in grado di far valere pubblicamente le proprie ragioni conculcate. 

La colpa delle élite, come dicevamo, non è di natura penale. Di questo si occuperà se rileverà profili illeciti la magistratura. La colpa delle élite è di natura politica. Perché in questo rapporto che non saprei definire altrimenti che affaristico che esse stabiliscono con le occasioni del proprio impegno pubblico, i responsabili distruggono beni tanto immateriali quanto essenziali al buon governo di una società, il prestigio delle istituzioni, la fiducia civica, il sentimento di sentirsi parte di una stessa comunità. Distruggono in una parola il senso stesso di essere comunità. Una comunità che viene così trascinata sul terreno del proprio e trasformata in un oggetto, appunto, di cui appropriarsi. Molta della crisi napoletana sta in questa impossibilità della città di poter confidare nelle sue élite sociali, sempre più popolate di straccioni incapaci di tenere a bada la propria voglia di prendersi tutto.
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