Flop differenziata a Napoli, perché la colpa non è sempre degli altri

di Piero Sorrentino
Giovedì 22 Agosto 2019, 08:00 - Ultimo agg. 08:11
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Forse basterebbe uno sguardo appena un po' distaccato per non lasciarsi travolgere, anche a questo giro dell'ennesima crisi dei rifiuti a Napoli, dai vortici rombanti dell'indignazione. Basterebbe non lasciarsi troppo impressionare - per comprendere quanto c'è di realmente drammatico - dagli inganni delle prospettive falsate con cui guardiamo spesso le cose. Liberarsi degli elementi di contestazione rabbiosa e passiva. Rendere il nostro disagio qualcosa di più di un semplice disincanto. Trasformare la nostra rassegnata sfiducia in qualcosa di simile a un istituto che i giuristi conoscono bene: la chiamata in correità. È una situazione che si verifica quando, nel corso di un processo, una persona, chiamata a rendere conto di un fatto, afferma: sì, assieme agli altri soggetti, sono coinvolto anche io in questo delitto.

Non sono solo un testimone, ma un co-imputato. Le colpe degli altri, signori della corte, sono anche le mie colpe. La rinuncia ai valori individuali di purezza, in altre parole, dovrebbe essere il sacrificio civile di cui dovremmo essere tutti finalmente capaci. Una presa di coscienza che nasce, certo, dall'inadeguatezza della politica e dei partiti, dalla incapacità degli amministratori e dei funzionari pubblici a mantenere le loro promesse, dalla inettitudine a svolgere il proprio ruolo.

Una lucida diagnosi dei fatti sulla catena di responsabilità delle crisi dei rifiuti che era già tutta contenuta, nel 2010, in «Scuorno» di Francesco Durante, del quale più passa il tempo, più se ne sente la mancanza ma anche un risveglio dal torpore autoassolutorio che sia capace di spingerci a un ulteriore, decisivo passo: quello di non dare a Cesare ciò che non è esclusivamente di Cesare, anche perché a Cesare abbiamo delegato col nostro voto, e dunque Cesare è qualcosa di molto simile a uno specchio sul quale non vogliamo affacciarci per non vederci brutti come lui. «Magari, tutti noi, ci renderemo conto della mala parata», scriveva l'altroieri, su queste colonne, Antonio Pascale e questa volta invece di scaricare, ci teniamo il cerino e chiederemo agli altri, responsabilmente, non solo di aiutarci a spegnerlo, ma anche di allontanare quel che resta del cerino senza inquinare.

Come Flaubert parlava di Madame Bovary, anche noi, forse, dovremmo cominciare a dire, dopo la multa comminata allo storico locale per la mancata raccolta differenziata della spazzatura: «Il Gambrinus c'est moi». Siamo noi società, o cittadinanza, o moltitudine, chiamatela come preferite che viviamo e facciamo, sono le nostre azioni quotidiane a costituire la struttura simbolica ma allo stesso tempo concretissima della città, e se la nostra vita associata è nelle cose che facciamo, la sua tragedia sta soprattutto in quello che viene mancato. Troppo facile chiamare il male fuori di sé, troppo comodo lasciarsi rapire dalla tentazione seducente di calare il randello sulle schiene degli altri. È un impegno troppo grande? Niente affatto. Intervistato da Daniela De Crescenzo, due giorni fa, qui su Il Mattino, l'assessore all'Ambiente del Comune di Napoli Raffaele Del Giudice stilava un promemoria di facile applicazione: «Bisogna ricordare che i rifiuti si conferiscono la sera, bisogna rispettare i calendari di raccolta differenziata, ridurre la produzione della spazzatura utilizzando meno imballaggi, usare le isole ecologiche itineranti per conferire gli ingombranti e soprattutto separare bene l'umido che a volte viene giudicato di scarsa qualità dagli impianti del Nord».

È sufficiente questo? Certamente no. È davvero possibile pensare di affrontare uno stato di crisi effettiva e permanente solo con la responsabilità civica? Naturalmente non è così. Eppure, che cosa altro può permettere il risveglio di una città dalla sua perenne terapia del sonno? Che cosa può liberarla dal cortisone che sembra avvolgerla come una pellicola impalpabile ma tenacissima? Più o meno la stessa fulminante risposta che diede - lo racconta Piergiorgio Bellocchio nel volume Dalla parte del torto - un figlio illustre di Napoli, Totò, quando, umile comparsa vestito da soldato napoleonico, irruppe per sbaglio nello studio dove si stava girando un film ambientato nella Roma imperiale, proprio nel bel mezzo della scena, rovinando completamente la ripresa. Il regista, imbestialito, urlò: «Chi è quell'imbecille?». «Sono io» rispose, fiero.
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