Napoli, la città litiga e si divide perché manca una visione

di Silvio Perrella
Venerdì 22 Marzo 2019, 08:00
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Eugenio Montale disse che la nostra era l'epoca dell'ossimoro permanente, cioè della coesistenza degli opposti. Io affermo e tu neghi e nessuno dei due ha ragione. E se questo avviene è perché né io né tu possiedono una visione generale.

Non si vede nulla se non si ha una visione. Ma chi oggi possiede lo sguardo lungo e largo di una progettualità fertile?

Oggi si potrebbe dire che dall'ossimoro si sia passati all'insensatezza. Ne deriva che c'è una difficoltà a farsi un'idea veridica di quel che succede. È quel che mi è successo a proposito della vicenda legata all'opera di Caravaggio dedicata alle «Sette opere della misericordia». Spostarlo, lasciarlo lì dov'è? Se mi mettevo dalla parte di chi organizza una mostra e lo vuol collocare all'inizio di un percorso, dicevo: è giusto, perché no? Se invece pensavo che la vicinanza tra Capodimonte e il Pio Monte della Misericordia è minima, pensavo: collegare due punti diversi della città gioverà all'arte sempre più negletta delle connessioni.

Ma le ragioni implicite degli uni e degli altri mi sfuggivano; anche perché avvertivo che non riguardavano l'oggetto in sé, ma piuttosto lotte di posizioni a me oscure e in gran parte mancanti di alcun interesse.

Litigiosità. Attorno a questa parola il Mattino ha intrecciato voci diverse. E se si litiga senza che se ne capiscano davvero le ragioni, allora vuol dire che una visione d'insieme non c'è o, se se ne avvertono dei barlumi, interessa poco a tutti.

C'è un solo metodo d'adottare per costruire oggetti della conoscenza; ed è quello di attenersi alla caratteristiche dell'oggetto. E se per dargli forma è necessario chiamare una persona che non suscita la nostra simpatia, devono prevalere le ragioni oggettive.

Conoscete altri metodi? È così che si forma una classe dirigente; e invece prevalgono sempre più le classi digerenti. Ecco perché le persone fattive sono costrette a fare da sole. Nei giorni scorsi ero a Milano e mi aggiravo tra gli stand di Bookpride, la fiera dell’editoria indipendente. Da lontano ho riconosciuto Rosario Esposito La Rossa. Era impegnato a raccontare la sua storia di editore e di libraio a una persona che lo ascoltava con interesse e ammirazione.

Scampia, un parente ucciso dalla camorra, il desiderio di reagire, la giovinezza passata a testimoniare un diverso modo di stare al mondo pur continuando a vivere a un millimetro di quel mondo, l’ingresso nell’età adulta, la possibilità di ereditare una casa editrice come Marotta & Cafiero, la decisione di aprire una libreria.

Lo guardavo parlare; ne osservavo lo sguardo chiaro; immaginavo quante volte era stato chiamato a testimoniare e a ripetere la sua storia. E avvicinandomi per dargli un abbraccio ho pensato: ecco un esempio di persona che si fa classe dirigente di se stessa.

E lo fa in attesa che nasca un qualcosa che possa accogliere in un mondo più vasto anche la sua esperienza. E soprattutto sappia prendersi cura del territorio e provi a dare forma ai vuoti lasciati dal passato.

Eh sì, perché oggi, per superare gli ossimori e le insensatezze, ci sarebbe bisogno di visionari di ciò che c’è. Ce n’è qualcuno in giro, certo; quel che davvero manca è la sintassi che li metta insieme uno accanto all’altro allo stesso tavolo: il tavolo-albero della laboriosità.
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