I «no-griglia» ultima follia di un Paese immobile

di Nando Santonastaso
Mercoledì 24 Ottobre 2018, 08:00
3 Minuti di Lettura
«Fermate il mondo… voglio scendere»: viene in mente il titolo di un film comico (ma fino a un certo punto) del 1970, con Lando Buzzanca e Paola Pitagora, a proposito dell’ennesimo «no» prodotto dal Movimento 5 Stelle nei confronti di un’opera pubblica in Italia e delle sue modalità realizzative.

Dopo i «niet» alla Tav Torino-Lione e al gasdotto Tap, per citare i più noti (ma anche i meno riusciti), adesso arriva l’altolà alle griglie dell’impianto di aerazione della metropolitana in corso di costruzione sotto Piazza del Plebiscito a Napoli. Anche stavolta, come nei casi appena ricordati (ma all’elenco si possono aggiungere anche la vicenda della gara per l’Ilva, i vaccini, il Terzo valico e così via), il copione si ripete: guai ai «profanatori», stop ai lavori, subito nuove perizie e controvalutazioni tecniche. Con conseguenze tanto prevedibili quanto paradossali, trattandosi di un’opera per la collettività: tempi che saltano, disagi per i cittadini che aumentano e imprese costrette a bloccare operai già assunti e i loro salari, e a domandarsi se in questo Paese autorizzazioni e nulla osta emessi dalle autorità indicate dalla legge hanno ancora un valore. «Fermate il mondo», appunto, o meglio «fermate l’Italia» ogni volta che si può. E che si possa - salvo poi cercare una via di fuga quando la realtà e il buon senso prevalgono - è ormai una prassi, specie se nel mirino ci sono le infrastrutture, diventate per questa parte della maggioranza di governo una sorta di male assoluto, il diavolo.

Sono diventate il simbolo di sprechi e malaffare che bisogna estirpare a tutti i costi. Un «no» talmente pregiudiziale che si fa fatica a controbilanciare con le ragioni della competenza e, appunto, del buon senso. Un muro, una cultura della post verità che trionfa sui social, alimentata ancora da rabbia e disinformazione e da una narrazione abilmente protesa a enfatizzare tutto ciò che può favorire un sospetto, un dubbio. E pazienza se si scoprirà poi che sono infondati: per ora è «no», poi si vedrà.

«Fermate l’Italia» è una strategia, non un capriccio. Della quale le prime vittime sono le imprese che si sono aggiudicate regolarmente gli appalti, che danno lavoro a migliaia di dipendenti, che sanno di dover rispettare tempi e procedure perché altrimenti finirebbero sotto inchiesta o più semplicemente pagherebbero penali a sei zeri. Già, le imprese, quelle che in un Paese normale verrebbero garantite sul piano burocratico perché le uniche in grado di dare lavoro, di produrre benessere, di far crescere l’attrattività di una città, piccola o grande, e che da noi invece sono osteggiate, discusse, fermate. E che si tratti di gruppi protagonisti in tutto il mondo di opere straordinarie anche sul piano architettonico, conta poco o nulla.

Ma «fermate l’Italia» è anche un pugno nello stomaco dei cittadini, magari degli stessi che possono legittimamente nutrire dubbi sulle grate di piazza del Plebiscito. Perché quando si finisce per mettere in discussione tutto, compresi i giudizi di tecnici ed addetti ai lavori, il risultato più probabile è il caos assoluto. Diventa vero tutto e il contrario di tutto, le emozioni di pancia pesano come le valutazioni degli esperti. Un guazzabuglio che aggiunge ritardi a ritardi, divora certezze e conoscenze, annulla prospettive e visioni. Se questa è la decrescita non è chiaro: ma che sia addirittura felice sembra francamente troppo. 

Per la cronaca: il film ricordato in precedenza racconta di un giovane che dopo avere criticato la civiltà dei consumi, partecipa ad un concorso televisivo e lo vince, diventando agiato. E rivedendo – ecco la morale – i suoi «no».
© RIPRODUZIONE RISERVATA