Napoli, un piano oltre gli slogan

di Vittorio Del Tufo
Martedì 21 Maggio 2019, 08:00
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Al capezzale della città malata continuano ad affollarsi rituali stanchi, parole vacue, discussioni sterili. E bandierine piantate dai politici di tutti i colori, che si precipitano negli ospedali ad accudire i cittadini inermi colpiti dal fuoco della camorra, e a spargere le lacrime del giorno dopo. Nel tentativo - inutile - di coprire con la propria voce il frastuono delle armi usate dai nuovi gangster metropolitani, come li ha definiti il capo della Polizia Gabrielli.
 
Sono pienamente condivisibili gli appelli che si levano da più parti affinché i napoletani alzino la voce contro la camorra. Giusto: guai se non fosse così, se a prevalere fosse una sorta di lucida rassegnazione, se perdessimo la capacità di indignarci. Solo che a volte capita, a coloro che provano a mantenere il timbro di voce bello alto, come la mamma di Arturo (il ragazzo quasi sgozzato da una babygang nel dicembre 2017) di essere trattati con un misto di fastidio o diffidenza. È lei stessa a riconoscerlo: «Ho avuto la percezione a volte di non essere più ascoltata» (Repubblica Napoli di ieri). E la voce che dobbiamo, tutti insieme, alzare è la stessa voce che alzammo quando venne massacrato Arturo, quando venne uccisa Silvia, quando venne trucidata Annalisa, quando venne strappato alla vita il piccolo Fabio. E tanti altri, in un rosario di vite spezzate, prima, e di spalle alzate, dopo.

Non è cambiata la nostra voce, né in lucidità delle analisi (sono tutte lucide le analisi che si affollano al capezzale della città malata) né in volume. 

Vogliamo prendere atto, senza infingimenti e retorici proclami, che non è servito a niente? Che Noemi non è una «gravissima eccezione» (cit. De Magistris) ma l’espressione più scellerata di un terrorismo urbano pulviscolare e diffuso, che colpisce nel mucchio arrivando a sparare finanche sui bambini? Mentre la vera camorra lucra affari nell’ombra, inserendosi, ogni volta che trova spazio, nel tessuto produttivo della città. 

Ecco, ora sappiamo come si esprimono i cani sciolti e i piccoli gangster della camorra, strafatti di cocaina. Come si esprime, invece, la voce di un popolo, di una comunità, che a questa deriva vorrebbe ribellarsi? Si esprime attraverso l’impegno quotidiano che riesce a mettere in campo con il lavoro di ogni giorno. Rischia di diventare stucchevole la polemica, che spesso dilaga sui giornali, sulla società civile che non farebbe appieno la sua parte. Cosa significa fare la propria parte? Che segmenti di borghesia connivente giochino di sponda con la camorra, contribuendo ad alimentare i traffici sporchi dei clan, accade da tempo. È materia di analisi storica. Ma il gangsterismo diffuso (e soprattutto il terribile arredo mentale) di strati sempre più ampi della popolazione, per i quali delinquere è una scelta di vita praticata sin dall’adolescenza, non può essere addebitato alla connivenza della società civile. Allo stesso modo in cui le stese e le scorribande armate sempre più frequenti non possono essere imputate a una fiction di successo. Le scuole e le università di questa città producono ogni anno un capitale umano eccellente, eppure tantissimi ragazzi scelgono di approfittare dei nuovi strumenti di dialogo e di crescita interculturale, come l’Erasmus, per scappare via, per piantare le radici altrove, per ricominciare, anzi per cominciare all’estero una nuova vita. Sono i nostri figli a fuggire, quando e se possono. Gridare ai camorristi «fuijtevenne», come ha fatto ieri il sindaco De Magistris, è solo uno slogan. Perché loro, i camorristi, hanno deciso di restare.

Poi c’è la voce delle istituzioni. Che diventa più forte ogni volta che l’emergenza Napoli cresce, si impenna, ritorna sulle prime pagine dei giornali. Ma i riflettori della politica nazionale sul caso Napoli continuano ad accendersi a corrente alternata, mentre in città e in provincia assistiamo a faide da Medioevo che si trascinano da anni, alimentate dal business maledetto della droga, e la microcriminalità appare sempre più polverizzata, ormai fuori controllo (nel senso che non c’è alcun potere, nemmeno criminale, in grado di controllarla).

Una sorta di piano Marshall - un piano straordinario per Napoli - può rappresentare qualcosa di concreto, e non solo uno slogan tra i tanti, a patto che si parta dalla consapevolezza che porre un argine alla barbarie non può essere solo un affare di polizia e di magistratura. La guerra che lo Stato è chiamato a combattere non può essere affidata solo dall’avamposto degli uomini in divisa. Né le risposte possono essere confinate nel solo perimetro - investigativo e repressivo - dell’azione repressiva. Di fronte al fallimento delle uniche agenzie educative di cui disponiamo - la scuola e la famiglia - ogni nuova esplosione di violenza urbana serve a ricordarci che l’immensa area metropolitana di Napoli è tuttora immersa in un’emergenza educativa e sociale senza precedenti, divorata da un cancro che s’innerva nel suo tessuto civile. È di una bonifica civile, pedagogica e sociale a tutto campo che c’è bisogno, con interventi mirati a ridurre la dispersione scolastica, diffondere la cultura della legalità a tutti i livelli, riqualificare i quartieri sventrati dal degrado, finanziare i progetti per i minori a rischio e per gli assistenti sociali. È una strada lunga, ma è l’unica percorribile. Il resto sono chiacchiere, bandierine. E lacrime del giorno dopo.
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