«Siete depressi? Venite a Napoli», la realtà parallela di de Magistris

di Francesco Durante
Martedì 13 Novembre 2018, 08:00
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«Noi riteniamo (...) che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che, allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità». È il solenne e rivoluzionario incipit della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America, proclamata a Filadelfia, la città dell'amore fraterno, il 4 luglio 1776. Ma ieri, in trasferta a Roma, il sindaco de Magistris si è spinto parecchio più avanti dei Padri Fondatori. Se essi, infatti, parlavano del diritto «alla ricerca» della felicità, il primo cittadino di Napoli ha annunciato che dalle nostre parti la felicità non occorre nemmeno più cercarla, perché già c'è, e vi è platealmente più radicata che in ogni altro luogo d'Italia. «A Napoli», ha affermato il sindaco pur con una preliminare petizione di umiltà, «ci sono tante ferite, sofferenze e problemi, ma anche una tale energia vitale e culturale che nel nostro Paese difficilmente si può riscontrare altrove. Siamo una delle prime città su turismo, lavoro, cultura, imprese e anche l'ultima per tasso di suicidi e depressione». Clausola a effetto: «Se siete depressi venite a Napoli».

Una frase che da sola si scolpisce nel marmo, aggiornando l'ormai remoto aforisma goethiano secondo cui «Non sarà mai del tutto infelice chi può ritornare con il pensiero a Napoli». Se siete depressi, dunque, venite a curarvi e a consolarvi qui. Per riandare soltanto alle ultime ore, potreste decidere che la vostra condizione è senz'altro migliore di quella delle mamme dei circa ottocento scolari della «Dante Alighieri» scese in piazza dopo due settimane di lezioni sospese a causa dei danni provocati dal maltempo. Cassonetti rovesciati, cordoni umani in piazza Carlo III, alta tensione con la polizia, ma alla fine tutto si aggiusta (è anche per questo che non siamo depressi) e arriva la notizia che oggi la scuola riapre. 

Potreste confrontare il vostro stato di depressione con quello degli utenti in attesa del passaggio dell'autobus a una qualsiasi fermata cittadina. O con quello di un qualsiasi automobilista in cerca di un parcheggio possibilmente non presidiato dagli abusivi. O con quello di chi tiene la movida sotto le finestre di casa e si ostina a voler dormire di notte. O ancora con quello di tantissime altre categorie, molte delle quali use a manifestare pressoché quotidianamente in piazza Municipio, che accampano problemi lungo tutto un vastissimo fronte sociale, assistenziale o economico e gridano in giro la loro frustrazione. 

Però, evidentemente, sarebbe un esercizio stucchevole e accademico, visto che «siamo una delle prime città su turismo, lavoro, cultura, imprese e anche l'ultima per tasso di suicidi e depressione» (e va da sé che il resto, cioè «ferite, sofferenze e problemi», è soltanto un trascurabile, indistinto limbo di fin troppo abusate ovvietà). Inguaribile ottimista, il sindaco fa mangiare la polvere anche al dottor Pangloss, quello che diceva che «siccome tutto è creato per un fine, tutto è necessariamente per il migliore dei fini», e che «quelli che hanno affermato che tutto va bene hanno quindi affermato una sciocchezza: bisognava dire che tutto va nel migliore dei modi». Potreste anche considerare un po' speciosa e strumentale questa lettura dei detti memorabili di Luigi de Magistris a fronte di una delle più celebri pagine di Voltaire. Essa, tuttavia, fa emergere il sintomo di un morbo oggi in via di costante diffusione. Si tratta dell'irresistibile tendenza di non pochi reggitori della cosa pubblica, dai livelli più bassi ai più alti, a spezzare le reni alla realtà semplicemente negandola, ovvero descrivendola per quello che essa non è. 

La realtà, d'altra parte, è da un pezzo che non esiste più. Se ne percepisce soltanto una rifrazione, peraltro assai più interessante e molto meno noiosa dell'originale giacché provvede a correggere e integrare le informazioni che la nostra troppo modesta, troppo limitata, troppo empirica esperienza ha avuto la protervia di comunicarci. L'esperienza manda continuamente ai nostri centri nervosi una congerie di segnali che faremmo meglio a trascurare, per concentrarci sulla sostanza ultima delle cose e sulla reale portata dei fatti, senza cedere a una visione grossolana, troppo terra-terra, fastidiosamente ripetitiva e inutilmente depressiva. Ecco dunque che i fatti vanno guardati e interpretati con occhio nuovo, e aggrediti con ottimistica energia. D'altronde, di energia, vitale e culturale, qui a Napoli ce ne abbiamo a bizzeffe, a secchi, a cànteri, e allora perché non usarla? Così come sappiamo costruire il presepe, e dunque rifare il mondo rendendolo perfetto, è ora che ci dedichiamo anche alla ricostruzione del già citato mondo: energia vitale e culturale, via. Siamo o non siamo «una delle prime città su turismo, lavoro, cultura, imprese e anche l'ultima per tasso di suicidi e depressione»? Magari il punto sta qui. Lo siamo o non lo siamo? Un vecchio parruccone come me, malato di quell'inutile pignoleria che serve solo a complicarti la vita, inclinerebbe a eccepire che almeno su lavoro e imprese le cose stanno in maniera assai diversa, mentre anche su turismo e cultura sarebbe il caso di riflettere in modo meno approssimativo. Ma va da sé che questo è un modo di ragionare vecchio, superato, antisociale e antisocial. Non funziona, non colpisce, non illumina né ispira. 

Il discorso su Napoli ha finalmente imboccato la via di una post-oleografia radicale e assertiva. Goethe che esagerava più di due secoli fa ci autorizza a esagerare anche oggi: in fondo, anche se di Goethe non ce ne importa un fico secco e non abbiamo mai veramente imparato a pronunciarne bene il nome, lui fa parte di una tradizione che ci garantisce e ci gonfia il petto, insufflandoci un'esilarante, entusiastica forza vitale. «Depressi, venite a Napoli» equivale al nicciano «filosofi, costruite la vostra casa sul Vesuvio». E attenzione: non è una pazzaria, bensì volontà demiurgica, pura energia dionisiaca. Fino al prossimo risveglio. 

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