A chi piace alimentare gli stereotipi di Napoli

di Piero Sorrentino
Venerdì 7 Dicembre 2018, 08:00
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In uno dei suoi film più belli, «Dogville», il regista danese Lars Von Trier ambienta le vicende dei suoi personaggi in una città ricostruita all'interno di una specie di teatro di posa, dove al posto del suolo compare una tetra lavagna nera sulla quale, col gesso, sono tracciati gli alberi, i confini delle strade, la forma delle case, i nomi degli abitanti e le funzioni svolte dagli edifici o dai locali commerciali: ospedale, lattaio, tribunale, scuola. È una città che non esiste, non ci sono nemmeno i muri delle abitazioni, tutti i personaggi sono costantemente esposti allo sguardo degli altri, eppure agiscono come se vivessero dentro case vere con pareti solide. Era a questa scelta di Von Trier - così straniante e visivamente di grande efficacia - che pensavo leggendo gli interventi di Vittorio Del Tufo e Marino Niola a proposito della scelta di Netflix di utilizzare San Gregorio Armeno come luogo nel quale la piattaforma di streaming ambienterà il suo prossimo spot di Natale. La via dei pastori come luogo «sempreverde dell'immaginario collettivo per veicolare messaggi o promuovere iniziative commerciali» scrive Del Tufo, andando dritto al cuore dell'infezione, puntando il dito sulla eterna rappresentazione della città per mezzo di stereotipi. In effetti, sembrerebbe che ci risiamo. Come l'assassino che sfida la polizia tornando sul luogo del delitto, ancora una volta l'industria della moda e dell'intrattenimento torna a percorrere i basoli antichi di san Gregorio Armeno.

Era già successo nel luglio del 2016 con la sfilata di Dolce&Gabbana: stessa via cittadina, stessa questione. C'era il pazzariello, la pizza, la tombola, Pulcinella, le modelle che indossavano copricapi a forma di teca con il sangue di San Gennaro. E c'era una città divisa tra critici ed entusiasti, tra chi contestava l'uso di spazi pubblici per un evento privato e commerciale e chi difendeva la scelta di concedere ai due stilisti una parte importante della città perché così ci sarebbe stato un ritorno di immagine di Napoli nel mondo. Proprio come accade in «Dogville», sembra insomma che a san Gregorio Armeno qualcuno abbia divelto i muri, livellato la strada, smantellato i palazzi lasciando confini indefiniti, tracciando intorno ai limiti delle vie, negli spazi tra un palazzo e l'altro, un'unica, enorme scritta col gesso che la percorre da cima a fondo: Napoletanità. Parola-mostro, parola-totem. E ogni sostituzione anche piccola, anche legata solo a un quartiere, a una singola strada che passivamente lasciamo fare a industrie o aziende capaci di plasmare con grande forza pezzi di immaginario (e sia l'industria della moda che quella degli audiovisivi sono capaci di farlo con una inimmaginabile potenza di fuoco), ogni piccolo tassello spostato da qui a lì è un passo decisivo verso la legittimazione intellettuale e ideologica dello stato di fatto da cui si torna indietro con gran difficoltà. 

L'isteria del successo o dell'immediato ritorno economico o di immagine non può costituire l'unico tessuto con il quale avvolgiamo una storia lunghissima e complessa. Il pericolo che si corre è quello di tornare ad assecondare - passando dalla politica alla comunicazione - un modello di potere al quale la città è stata da sempre, o quasi, esposta: quello del vicereame, in cui gli ordini partono da fuori, da lontano, senza mai violare o disturbare il diritto al particolare, a patto che questo stia ben confitto nel suo piccolo recinto, separato dagli spazi dove i racconti sull'identità della città servono invece a costruire un progetto di trasformazione e soprattutto di crescita coerente. Voi continuate così, non vi disturbiamo, sembra essere il messaggio: continuate a essere allegri, imprevedibili, vitali, dalla battuta pronta, secondo i più quotati dei luoghi comuni che soffocano la città. Noi vi portiamo due soldi, molta diffusione sui social, moltissima visibilità nella vetrina del mondo. Ma che cosa ci trattiene dal pensare che così rischiamo sempre di più di fare in modo che questa città appartenga a tutti tranne che a chi la abita?

P.S. I cinesi hanno costretto Dolce&Gabbana a pubbliche scuse dopo la trasmissione di uno spot della casa di moda infarcito di luoghi comuni sulla cultura orientale. Come noi eravamo tutti pizza e mandolino, lì c'era un tripudio di bacchette e lanterne rosse. Prendere appunti per il futuro.
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