Pd Campania, Cennamo: «Orfano della politica, prigioniero del totonome»

Pd Campania, Cennamo: «Orfano della politica, prigioniero del totonome»
di Adolfo Pappalardo
Venerdì 25 Marzo 2022, 08:34 - Ultimo agg. 26 Marzo, 09:06
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«Servirebbe un'analisi sullo stato del Pd invece vedo tutto ridotto ad una discussione sterile sui nomi che inizia e finisce in una singola corrente», ragiona amaramente Aldo Cennamo, una lunga carriera nel Pci tra Napoli (assessore con Valenzi) e Roma (parlamentare), e poi dirigente di spessore chiamato dal Pd quando è in difficoltà (commissario ad Avellino sino a pochi mesi fa).

Antideluchiani contro deluchiani: qualcuno ricorda le eterne guerre all'interno del Pci.
«La fermo subito perché nel Pci c'erano discussioni interne, anche aspre, ma sui contenuti che qui non vedo affatto.

Questo è il problema».

Dica.
«Ci si divideva su temi di forte impatto sociale come l'abolizione della scala mobile o su aspetti concreti come l'urbanistica e gli assetti del territorio. Ricordo che dopo il primo anno di giunta Valenzi, siamo nel 76, si aprì una grande discussione sul Piano regolatore approvato non da noi: la divisione era se e come portarlo avanti. C'era il tema del Centro direzionale e l'espulsione di 300mila residenti napoletani altrove. E così sui disoccupati o sul Regno del possibile di Pomicino ci confrontammo, anche duramente, con l'aiuto di docenti e intellettuali».

Torniamo al Pd regionale e il nodo del segretario.
«Io credo ci sia una carenza di analisi. L'attenzione è tutta puntata sul partito campano che è nella condizione che sappiamo. Nessuna discussione sui problemi reali, su ciò che è accaduto. Ma non mi meraviglia se nel partito nazionale si è evitata la riflessione anche all'indomani dell'addio di Zingaretti. Ed è stato chiamato Letta, da Parigi, perché fuori dal cerchio delle correnti. Il problema del Pd campano è del ruolo e della funzione del partito stesso. Manca un'analisi di fondo».

Facciamola.
«Un partito dovrebbe saper coniugare valori e idee. Non lo facciamo in Campania ma è lo stesso problema ovunque, specie al Sud. Il Pd a Napoli città ha conseguito alle amministrative il 12,2 per cento ed è il primo partito. E su 39mila voti il 90 per cento sono di preferenza. Un dato che dovrebbe far riflettere: non si trova la giusta forma di rappresentanza».
In Campania l'accusa è che il Pd ha preso una forma leaderistica-personale.
«De Luca è stato bravo a costruire una coalizione ampia ma è sparita l'autonomia del partito con il ruolo dell'istituzione regionale che prevale su tutto. Per questo oggi, più che mai non servono soluzioni rabberciate ma l'indicazione di una via: un partito deve indicare le soluzioni dei problemi e radicarsi nella società. E se l'iniziativa del manifesto degli intellettuali è un sassolino nello stagno per rimettere in piedi la discussione va bene. Anche se non amo certi toni e preferisco una discussione seria altrimenti cadiamo nella liquidità in cui siamo abituati».

La discussione ora è univoca: se Stefano Graziano sarà segretario dopo Annunziata. In mezzo una guerra a De Luca.
«Annunziata e Graziano non c'entrano nulla: la discussione dovrebbe interessare tutto il Pd e a tutti i livelli. Ma qui vedo prevalere l'autoreferenzialità su tutto».

Su De Luca?
«De Luca è solo l'epifenomeno di qualcosa che va avanti dal 93. I ruoli istituzionali, proprio perché i partiti hanno perso la loro identità, sono riconosciuti di più. Vale per i sindaci o i presidenti di Regione. Non solo De Luca ma anche Emiliano o Fontana. E De Luca che ci mette del suo per il suo carattere. E la gestione dei partiti si riduce a una conta o alla gestione dei pacchetti di tessere».

In molti evocano il commissario. Cosa ne pensa lei che lo è stato in Irpinia?
«Preferisco sottrarmi al totonomi e alle totosoluzioni. Noto solo come Roma si aspetta che il problema si risolva qua. Ma qui non vedo soluzioni».
 

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