«Servirebbe un'analisi sullo stato del Pd invece vedo tutto ridotto ad una discussione sterile sui nomi che inizia e finisce in una singola corrente», ragiona amaramente Aldo Cennamo, una lunga carriera nel Pci tra Napoli (assessore con Valenzi) e Roma (parlamentare), e poi dirigente di spessore chiamato dal Pd quando è in difficoltà (commissario ad Avellino sino a pochi mesi fa).
Antideluchiani contro deluchiani: qualcuno ricorda le eterne guerre all'interno del Pci.
«La fermo subito perché nel Pci c'erano discussioni interne, anche aspre, ma sui contenuti che qui non vedo affatto.
Dica.
«Ci si divideva su temi di forte impatto sociale come l'abolizione della scala mobile o su aspetti concreti come l'urbanistica e gli assetti del territorio. Ricordo che dopo il primo anno di giunta Valenzi, siamo nel 76, si aprì una grande discussione sul Piano regolatore approvato non da noi: la divisione era se e come portarlo avanti. C'era il tema del Centro direzionale e l'espulsione di 300mila residenti napoletani altrove. E così sui disoccupati o sul Regno del possibile di Pomicino ci confrontammo, anche duramente, con l'aiuto di docenti e intellettuali».
Torniamo al Pd regionale e il nodo del segretario.
«Io credo ci sia una carenza di analisi. L'attenzione è tutta puntata sul partito campano che è nella condizione che sappiamo. Nessuna discussione sui problemi reali, su ciò che è accaduto. Ma non mi meraviglia se nel partito nazionale si è evitata la riflessione anche all'indomani dell'addio di Zingaretti. Ed è stato chiamato Letta, da Parigi, perché fuori dal cerchio delle correnti. Il problema del Pd campano è del ruolo e della funzione del partito stesso. Manca un'analisi di fondo».
Facciamola.
«Un partito dovrebbe saper coniugare valori e idee. Non lo facciamo in Campania ma è lo stesso problema ovunque, specie al Sud. Il Pd a Napoli città ha conseguito alle amministrative il 12,2 per cento ed è il primo partito. E su 39mila voti il 90 per cento sono di preferenza. Un dato che dovrebbe far riflettere: non si trova la giusta forma di rappresentanza».
In Campania l'accusa è che il Pd ha preso una forma leaderistica-personale.
«De Luca è stato bravo a costruire una coalizione ampia ma è sparita l'autonomia del partito con il ruolo dell'istituzione regionale che prevale su tutto. Per questo oggi, più che mai non servono soluzioni rabberciate ma l'indicazione di una via: un partito deve indicare le soluzioni dei problemi e radicarsi nella società. E se l'iniziativa del manifesto degli intellettuali è un sassolino nello stagno per rimettere in piedi la discussione va bene. Anche se non amo certi toni e preferisco una discussione seria altrimenti cadiamo nella liquidità in cui siamo abituati».
La discussione ora è univoca: se Stefano Graziano sarà segretario dopo Annunziata. In mezzo una guerra a De Luca.
«Annunziata e Graziano non c'entrano nulla: la discussione dovrebbe interessare tutto il Pd e a tutti i livelli. Ma qui vedo prevalere l'autoreferenzialità su tutto».
Su De Luca?
«De Luca è solo l'epifenomeno di qualcosa che va avanti dal 93. I ruoli istituzionali, proprio perché i partiti hanno perso la loro identità, sono riconosciuti di più. Vale per i sindaci o i presidenti di Regione. Non solo De Luca ma anche Emiliano o Fontana. E De Luca che ci mette del suo per il suo carattere. E la gestione dei partiti si riduce a una conta o alla gestione dei pacchetti di tessere».
In molti evocano il commissario. Cosa ne pensa lei che lo è stato in Irpinia?
«Preferisco sottrarmi al totonomi e alle totosoluzioni. Noto solo come Roma si aspetta che il problema si risolva qua. Ma qui non vedo soluzioni».