Rifiuti, basta ammuina: siamo ancora all'anno zero

di Marilicia Salvia
Venerdì 27 Luglio 2018, 08:00 - Ultimo agg. 08:20
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Il segno di carenze nei controlli, di buchi clamorosi nella filiera della raccolta e dello smaltimento, dentro i quali chi ha interesse a fomentare crisi si infila agevolmente, senza trovare resistenze. Questo fallimento interroga tutti, e impegna tutti, dal governo ai sindaci, dai magistrati ai leader dei comitati ambientalisti, a cambiare risposte. Partendo da un «basta» che è il minimo sindacale: mai più aggiungere altro inquinamento. Incendi grandi e piccoli, tutti puntualmente dolosi e tutti alimentati da interessi inconfessabili, non sono ulteriormente tollerabili. Il lavoro dei commissari antiroghi, che «governano» una task force di cui fa parte anche l’Esercito, per quanto capillare ed encomiabile assomiglia a quello di chi tenta di svuotare il mare con un secchio. Per quante officine abusive si chiuderanno, per quanti «untori» del sacchetto selvaggio si multeranno, niente potrà cambiare senza il deterrente dell’arresto, o almeno del Daspo per chi è sorpreso a inquinare e bruciare. E - soprattutto - per i suoi mandanti. Perché lo sanno tutti che per ogni Rom trovato con l’accendino in mano c’è un «imprenditore» che sta smaltendo le sue scorie tossiche a spese della collettività. Allora basta ritardi e basta armi spuntate, la tolleranza zero sempre sbandierata ha bisogno di norme chiare, di sanzioni severe. Il ministro Costa, che prima di arrivare a Palazzo Chigi ha conosciuto la Terra dei fuochi da comandante generale del Corpo forestale, sa di che cosa si parla. E sa che occorre battere contemporaneamente l’altro tasto, quello delle bonifiche. Non basta spegnere gli incendi né circondare di nastri bianchi e rossi i terreni contaminati dai veleni. Bisogna ripulire, risanare, riconquistare spazi all’agricoltura, o ad attività sociali. Un lavoro immenso che sa di ricostruzione, di rinascita. Ma che finora è stato condotto nell’uno per cento del territorio. Sì, l’uno per cento. Degrado che chiama altro degrado, autorizzando la crescita tumultuosa della protesta, della ribellione. Che è figlia della diffidenza. Non si fidano più delle istituzioni, le migliaia di residenti della Campania infelix oppressa dalle nubi tossiche e dall’incubo delle malattie. Non si fidano ed hanno paura, se nel pieno dell’estate più torrida sono costretti a tapparsi in casa con le finestre chiuse, per non sentire nella gola il sapore acre della plastica bruciata. Non si fidano ed è un problema serio, perché questi maxi-incendi dimostrano che il piano rifiuti regionale è monco e pieno di falle, mentre per realizzare una filiera adeguata alle necessità la collaborazione dei cittadini è una condizione imprescindibile.

Dunque basta. Basta con i «no» dei sindaci che strizzano l’occhio alle popolazioni inquiete, senza capire che una visione di lungo periodo è anche politicamente più fruttuosa della ricerca di un consenso immediato. E basta con silenzi che danno il segno dell’incertezza anche da parte degli inquirenti. Lascia interdetti, per esempio, il fatto che ancora nulla venga fuori dall’inchiesta aperta sul rogo di San Vitaliano ormai tre settimane fa. Un rogo violento, scoppiato di domenica dentro uno degli impianti per il trattamento dei rifiuti più avanzati del Paese. Pur comprendendo il riserbo che deve circondare le indagini, non possiamo accontentarci, tanto più all’indomani di un disastro-fotocopia, di uno scontato provvedimento di sequestro degli impianti. Per San Vitaliano, come a fine giugno per Battipaglia e ieri per Caivano, il ministro Costa ha parlato di obiettivi «sensibili» che meritano un’osservanza speciale. Ma per quale motivo? Chi, e perché, ha interesse a distruggere impianti ufficialmente «puliti» e addirittura premiati dai presidenti della Repubblica? Se c’è, come appare inevitabile, ancora una volta la mano della camorra a muovere i fili di questa emergenza «indotta», possibile che le antenne dell’antimafia, dalle prefetture alla superprocura, non ne abbiano captato per tempo i segnali? Possibile che si sia dovuti arrivare all’irreparabile, alla deflagrazione di una spaventosa bomba ecologica, per prendere definitivamente coscienza dell’ulteriore dichiarazione di guerra di un potere che a dispetto di arresti e condanne continua a risorgere dalle proprie ceneri?

A due giorni dal disastro tris, quello che potrebbe aver trasformato i due indizi precedenti in una prova, sul tavolo resta una sola certezza, e cioè che bisogna mettere mano subito, senza più indugi, senza ipocrisie, a un piano industriale di mano prevalentemente pubblica. Tanto più se ha qualche credito l’ipotesi di una camorra diventata piromane in risposta all’avvio dei bandi di gara per i nuovi impianti voluti dalla Regione, insistere su questa strada è vitale. Dal potenziamento della differenziata alle strutture per lo smaltimento delle vecchie ecoballe, l’affare rifiuti va sottratto alle mire dei boss: mire, viceversa, potenzialmente favorite dalla presenza di impianti privati. Che restano necessari ma vanno sottoposti a controlli più incisivi, nel loro stesso interesse. È importante appurare, per esempio, perché e quale «imbuto» stia determinando un rallentamento del ritiro del materiale riciclato da parte dei consorzi autorizzati, rallentamento che ha di fatto trasformato gli impianti di trattamento in veri e propri siti di stoccaggio, ai quali poi è stato dato fuoco. E parallelamente andrebbe capito se e quando le misure di sicurezza degli impianti incendiati erano state verificate, e giudicate idonee, da collaudatori imparziali. Il meccanismo, insomma, può essersi inceppato in diversi punti, e il «regista» potrebbe essere nascosto ovunque. Ma è un nemico da stanare. Ora, subito. Perchè la Campania è stanca di orrore, perché la sua gente ha diritto di respirare. Perché ora, davvero, basta.
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